Yates si passò una mano sottile sui capelli biondi.
«Non è così facile», disse con la sua voce morbida e suadente. «Lassù c'è uno scheletro e al dito ha l'anello di Braker. Bisogna tenerne pure conto, no? E si tratta di me o di te o di Braker o della ragazza o del vecchio o di Masters. Inutile cercare di ingannarci». La voce gli diventò improvvisamente iraconda e guardò Braker, poi Tony. «Comunque io mi terrò con la schiena voltata dalla parte giusta così non ci saranno trucchetti strani».
Braker respirò pesantemente. «Verme schifoso», gli disse. Fece un passo verso di lui. «Solo tu potresti pensare certe cose e probabilmente saresti anche capace di farle. Be', non provartici con me, chiaro?!» Fece una smorfia. «E sta in guardia anche tu, Crow. Questo bel tomo è una vipera... nel caso tu abbia pensato che fossimo amici».
«Oh, piantatela tutti e due», dibatté Tony stancamente. Poi aggiunse. «Se riusciamo a rimettere in assetto di volo l'astronave, non c'è ragione perché non ce ne andiamo tutti e sei da qui... vivi». Si volse verso la porta, e fece un gesto a Braker e Yates perché lo seguissero. Ma nello stesso tempo si rendeva conto, con una sensazione di nausea, che era lui quello che voltava la schiena a uomini che erano notoriamente privi di coscienza.
Passò una settimana. La pianura risuonava tutta dei colpi di martello vibrati contro i tubi contorti. Tre non erano più riparabili.
Tony, smagrito, stanco e incredibilmente sporco dopo la sua ultima ricognizione nel principale tubo di scarico tutto contorto, fu improvvisamente messo in allarme da un rumore di voci irose appena fuori dall'astronave. Corse verso la porta stagna e si diresse verso poppa dove Braker e Yates si erano accapigliati.
«Lo ucciderò!» continuava a ripetere Braker furioso. In mano stringeva un sasso grosso quanto il suo pugno e cercava evidentemente di spiaccicare la zucca a Jawbone Yates. Erle Masters, in piedi accanto a loro, si mordicchiava nervosamente il labbro inferiore.
Con un'imprecazione, Tony strappò il sasso di mano a Braker e tirò l'uomo in piedi. Yates. si rialzò a fatica, piagnucolando. La bocca gli sanguinava.
Braker fece per scagliargli contro di nuovo. «Quel fetente!...» ringhiò. «Ha cercato di avvicinarsi alle mie spalle con una torcia ad acetilene!»
Yates cacciò un grido facendo un passo avanti. «È una menzogna!» Puntò una mano tremante contro Braker. «Era lui che voleva usare la torcia contro di me!»
«Piantatela!» gridò Tony. Poi si girò verso Masters. «E lei ha una bella faccia tosta a starsene lì così», ringhiò. «Ma già, lei vuole uno scheletro! Ma che sia dannato se l'avrà! Chi è stato a cominciare?»
«Io... io non ho visto...» balbettò Masters. «Io stavo solo...»
«Immaginarsi...» commentò Tony. Poi si girò di scatto verso gli altri due e li trafisse con un'occhiata gelida.
«Adesso piantatela!» ordinò loro, muovendo appena le labbra. «Il fatto è che o vi siete lasciati prendere dai nervi o uno o tutti e due accusate l'altro della mossa che avete fatto entrambi. Be', tanto vale sappiate che lo scheletro era intatto e come pensate che una torcia ad acetilene avrebbe ridotto uno scheletro?» Le sue labbra si arricciarono.
Braker raccolse la propria torcia lanciando uno sguardo velenoso all'indirizzo di Yates. Questi raccolse lentamente il suo martellone e si volse verso Tony.
«Dici che lo scheletro era intatto?» Nei suoi occhi era evidente un ardente desiderio che la sua voce non lasciava trasparire.
Lo sguardo di Tony passò sulla mascella sporgente del fuorilegge.
«La testa», rispose il tenente, «era in ombra».
Sussultò. Non è mai piacevole vedere morire una speranza, perfino in un duro come Jawbone Yates.
Gli volse le spalle e lasciò andare un lungo sospiro stanco. Quella sì che era un'impresa sovrumana... giocare d'astuzia col destino e fare sì che non si verificasse ciò che era successo!
Tony quel giorno lavorò più a lungo di quanto si fosse aspettato, cercando di rintracciare la rete dei condotti del combustibile rivestiti di asbesto e segnando su una carta i punti di rottura. Il sole calò lentamente. Le tenebre dilagarono sulla pianura mentre si levava un vento sempre più forte. Tony accese le luci e continuò a lavorare con ostinazione e coi nervi a pezzi. C'era troppo da fare per rallentare il ritmo. Il pianeta invasore si ingrandiva ogni notte di un grado o anche più e la crescente attrazione gravitazionale era sottolineata dai venti delle maree che crescevano di intensità e dai temporali sempre più violenti. Segnò con una X un punto di rottura... e poi si immobilizzò. Nella notte si era sentito un urlo lacerante.
Tony lasciò cadere carta e matita e si lanciò di corsa su per la rampa che portava al corridoio superiore dove udì in pieno il secondo urlo di Masters. Masters aveva lasciato la sua stanza e correva nel corridoio con indosso il solo pigiama. Dalla spalla gli sporgeva un coltello.
In preda all'orrore, Tony si lanciò verso di lui e lo raggiunse proprio mentre crollava a terra a faccia in giù. Il tenente fissò il pesante coltello da macellaio che era stato piantato proprio attraverso i muscoli del collo della spalla sinistra di Masters nel chiaro tentativo di vibrargli un colpo al cuore.
Masters si girò sul fianco, balbettando qualcosa, col viso atteggiato a una smorfia di orrore. Tony si alzò di scatto e si lanciò con tutta la potenza delle sue gambe verso il saloncino.
Di fronte a lui apparve una figura in corsa. Tony la raggiunse e passò il braccio attorno al collo dell'uomo in una presa di ferro.
«Tu!»
Yates si dibatté come una tigre, riuscendo a liberarsi col viso stravolto da un'espressione di furore. La palma aperta della mano di Tony lo colpì in pieno volto e Yates barcollò e cadde per rizzarsi un istante dopo su un gomito.
«Perché l'hai fatto?» sibilò Tony, sopra di lui.
Il viso di Yates era livido. «Perché preferisco vivere piuttosto di qualsiasi altra cosa!» Col piede calzato dallo stivaletto vibrò un calcio a Tony che saltò indietro per scansarlo. Yates si alzò. Tony strinse entrambe le mani a pugno e le fece partire dall'altezza delle ginocchia vibrando un colpo con tutta la ferocia che provava in quel momento. Yates si sollevò letteralmente da terra, poi si piegò e si accasciò al suolo.
Tony lo sollevò di peso per un braccio e lo scagliò nel saloncino come un sacco di patate.
Braker che dormiva su una panca imbottita si rizzò a sedere sbattendo gli occhi.
«Il tuo amico ha piantato un coltello nella spalla a Masters», gli disse Tony in tono tagliente.
«Uh?» Braker si alzò in piedi. «L'ha ucciso?» Nella penombra i suoi occhi brillavano.
«Saresti stato contento se l'avesse fatto, eh?»
Braker guardò Yates, poi disse lentamente: «Senti, sbirro, non fare l'errore di mettermi nella stessa categoria di un verme come Yates. Io non pugnalo la gente alle spalle. Ma se Masters fosse morto, ne sarei stato lieto, in quanto si sarebbe forse risolto un problema che ci angustia tutti. Che intendi fare di lui?»
«L'ho già sistemato. Ma avverti Yates di girare al largo da Masters, adesso».
Braker emise un grugnito disgustato. «Uh. A Masters gli salteranno i nervi adesso e lo sistemerà lui adesso».
Tony se ne andò.
Laurette e Overland stavano curando Masters nella sua cabina. La ferita era netta e quasi non sanguinava.
Overland, un po' pallido si appoggiava alla porta. «Non è nulla di grave, tesoro», disse alla figlia che stava medicando abilmente la ferita.
«Nulla di grave?» La ragazza volse a Tony uno sguardo scosso. «Lo guardi. E papà dice che non è nulla di grave!»
Tony sbatté gli occhi. Masters giaceva sul letto a faccia in giù e balbettava istericamente tra sé con gli occhi dilatati. La sua pelle era bianca, color gesso e la paura gli aveva segnato la pelle attorno alle labbra.
«Mi ha accoltellato», ansimò. «Mi ha accoltellato. Io dormivo, ecco il guaio. Ma l'ho sentito...» si inarcò in una mossa convulsa e si seppellì il viso nel cuscino.
Laurette finì il suo lavoro, pallida in volto.
«Rimarrò io con lui per il resto della notte», le disse Tony.
Overland si mordicchiava nervosamente il labbro inferiore.
«Chi è stato?»
Tony glielo disse.
«Non possiamo fare nulla?»
«E cosa?» Tony scoppiò in una risata sprezzante. «A Masters hanno fatto lo stesso scherzetto che lui aveva fatto a me. Neanche lui è un angioletto».
Overland annuì. Sua figlia lo aiutò a uscire dalla cabina.
Durante la notte Masters si agitò e delirò. Alla fine cadde in un sonno profondo. Tony si lasciò andare in una poltroncina, appoggiandosi allo schienale, e ascoltando pensieroso i suoni del vento; più tardi osservò il sole che sorgeva tingendo l'ammasso di nuvole di una mutevole fantasmagoria di colori.
Masters si svegliò. Si girò su un fianco, vide Tony e si irrigidì. Poi si alzò in piedi e si appoggiò alla parete.
«Se ne vada», gli ordinò, facendo un gesto violento con la mano.
«Lei è fuori di sé» gli rispose Tony, irritato. «È stato Yates».
Masters ansimò. «Lo so benissimo chi è stato. Ma che differenza fa? Siete tutti della stessa risma. D'ora in avanti starò bene in guardia. E terrò sempre la schiena voltata dalla parte giusta. Starò bene attento che nessuno di voi...»
Tony si mise le mani sui fianchi. I suoi occhi si restrinsero.
«Se lei ha un minimo di buonsenso, cercherà di dimenticare quanto ha detto e si comporterà da essere umano. Meglio essere morto che il tipo d'uomo che rischia di diventare».
«Fuori. Fuori!» Masters agitò di nuovo la mano, tremando tutto.
Tony se ne andò, scuotendo lentamente la testa.
Tony era fuori dell'astronave e fumava una sigaretta. Era notte. Dietro di sé udì dei passi. Indietreggiò e si voltò di scatto.
«I nervi?» Laurette Overland scoppiò in una risata, una sciarpa di lana le svolazzava attorno spinta da un vento innaturale.
Tony si rilassò. «Dopo due settimane passate a controllare gli altri che controllano gli altri ancora, succede».
La ragazza rabbrividì e Tony capì che non era per il morso del vento. «Immagino che si riferisca a Erle».
«In parte. Suo padre si è alzato, vero, oggi? Non avrebbe dovuto alzarsi quella notte».
«Oh, sta benissimo».
«Forse farebbe meglio a rinchiudersi in camera». Tony sorrise, per nulla divertito. «Gli altri sono sicuri che l'anello tornerà indietro».
Laurette Overland rimase in silenzio. Nella penombra, rotta ormai solo dalla mezzaluna di un pianeta che ora appariva con una piccola luna e che si faceva sempre più grossa, le vide un sorriso triste sulle labbra. Poi anch'esso sparve.
«Erle mi diceva che i razzi sono in pessime condizioni» disse la ragazza. «Quando li avete accesi per prova ne sono saltati altri tre».
«Infatti».
La ragazza continuò: «Mi ha anche detto che c'è un peso massimo ben definito che i razzi possono sollevare per strapparci all'attrazione gravitazionale. E dovremo buttare fuori tutto ciò che non ci serve. Libri, tappeti, indumenti, letti». Respirò a fondo. «E alla fine, magari addirittura un essere umano».
Il sorriso di Tony era come cristallizzato nel ghiaccio. «Allora la profezia si avvererebbe».
«Sì. Si tratta di una profezia, non è vero?» Laurette sembrava perplessa in modo infantile. Poi aggiunse: «E sembra anche che debba proprio verificarsi. Perché... mi scusi, tenente», disse poi in fretta e scomparve verso la porta stagna.
Tony fissò la direzione in cui era scomparsa con la mente brulicante di pensieri niente affatto piacevoli. Era incredibile, fantastico. Così non era possibile farla al destino. L'astronave avrebbe dovuto venire alleggerita. Un'ipotesi poteva facilmente venire trasformata in una convinzione. Ci sarebbe stato un essere umano di troppo.
Il professore Overland uscì lentamente dalla porta stagna, trasalendo per l'aria fredda dopo le due settimane che aveva passato in isolamento. I suoi occhi spauriti si volsero verso Tony e si fece avanti sollevando gli occhi verso il pianeta della distruzione che si faceva sempre più grande.
«Erte ha calcolato il tempo che ci metterà per arrivare: tre giorni, otto ore e qualche minuto. Ma è parecchio tempo, non trova, tenente?»
«Uno dei razzi si può raddrizzarlo se ci mettiamo d'impegno. Poi potremo cominciare a scaricare il peso superfluo. Ce n'è un sacco».
«Sì, sì, lo so». Il professore si schiarì la gola. I suoi occhi si volsero verso Tony, colmi di disperazione. «Tenente», disse con voce fischiante. «C'è una cosa che devo assolutamente dirle. L'anello è tornato».
Tony sobbalzò. «È tornato?» balbettò
«In un pesce».
«In un pesce?»
Overland si passò una mano tremante sulla fronte. «Una settimana fa ieri, Laurette ha servito del pesce fritto. Aveva usato un vecchio abito come rete. E io ho trovato l'anello in un pesce. Vede, io non sono superstizioso nei confronti di quell'anello, ma quello scheletro lassù è uno di noi. Non c'è modo di evitarlo. Mi sono messo l'anello al dito... più per fare una bravata che altro, ma stamattina...» la sua voce si abbassò fino a diventare un sussurro, «...l'anello era scomparso. Adesso sto diventando superstizioso, anch'io, anche se non è affatto indice di mentalità scientifica. Laurette è l'unica che potrebbe averlo preso. Gli altri preferirebbero comunque che sia al mio dito piuttosto che al loro. Perfino Erle».
Tony guardò oltre di lui, nel vuoto. Ora ricordava il sorriso strano di Laurette. Bruscamente si avviò verso l'astronave dicendo:
«Meglio tornare dentro, signore».
Una volta rientrato, andò a bussare alla porta di Laurette.
«Sì?» chiese lei nervosamente.
«Posso entrare?»
«No. No. È proprio necessario?»
Tony ci pensò un attimo, poi aprì la porta e entrò. Laurette era in piedi vicino al letto e aveva gli occhi spiritati.
Tony stese la mano con un gesto imperativo. «Mi dia quell'anello».
Con voce bassa e controllata la ragazza rispose: «Tenente, l'anello lo terrò io. Lo dica pure agli altri. Così non ci sarà più questa tensione nell'aria e si smetterà di tramare assassinii».
Tetro, il tenente disse: «Potrebbe risultare suo quello scheletro».
«Lei ha detto che lo scheletro non era di una donna».
«Mentivo».
«Vuol dire», chiese Laurette, «che lo era?»
«Voglio dire che non lo so», rispose Tony in tono paziente.
«Non ero in grado di determinarlo. Allora questo anello, me lo dà o no?»
Laurette respirò a fondo. «Un anello non può assolutamente decidere chi dovrà essere o morire».
Tony fece un passo avanti. «Neanche suo padre ci crede più», disse con voce stridula.
Laurette sbatté gli occhi. «L'anello lo terrò io e io me ne starò nella mia cabina eccetto quando cucino. Lei può tenere tutti gli altri fuori dall'astronave. E in questo modo non ci sarà nessuno che possa farmi del male».
Nel corridoio risuonarono dei passi, poi Masters entrò nella stanza. La tensione gli aveva scavato delle profonde occhiaie attorno agli occhi mobilissimi.
«Oh, lei», fece rivolto a Tony con una voce sottile e incerta. Si appoggiò con la schiena alla parete e si bagnò le labbra, rivolgendosi alla ragazza. «Ho parlato con tuo padre».
«E va bene», sbottò Laurette irritata. «L'anello l'ho io e lo tengo».
«No, non puoi, Laurette. Questa volta ce ne sbarazzeremo e sotto gli occhi di tutti e sei».
«Ma non puoi sbarazzartene!» Poi bruscamente cambiò idea perché se lo strappò dal dito. «Prendi!»
Masters si accartocciò contro la parete.
«Non c'è ragione di passarmelo adesso. L'hai tu, tanto vale che lo tieni». I suoi occhi si illuminarono come per un'improvvisa ispirazione. «Anzi, meglio darlo a Crow. È lui che rappresenta la legge. È più corretto».
Laurette sembrò senza parole.
«Ma guarda... si può immaginare un essere più privo di spina dorsale?... No, lo terrò io l'anello. Prima smonta mio padre, poi...» lanciò un'occhiata di sdegno all'indirizzo di Masters. «Vorrei che mi lasciaste in pace tutti e due, per favore».
Tony si strinse nelle spalle e uscì con Masters alle calcagna.
Tony lo fermò.
«Quanto tempo ci rimane?»
«Siamo qui da quattordici giorni», rispose Masters, nervoso. «E il contatto avverrà il venticinque, cioè fra undici giorni, ora più ora meno».
«I suoi calcoli sono precisi?»
«Abbastanza», mormorò Masters. «Dovremo praticamente gettare fuori tutto. Porte, vestiti, mobilio. E poi...»
«Sì?»
«Non so», mormorò Masters e sgattaiolò via.
Era il ventiquattro di dicembre.
I venti mareali crebbero di intensità in proporzione diretta al crescere del diametro angolare del pianeta invasore. Degli uccelli pesanti a colori sbiaditi cercarono scampo nel volo. Sui fianchi erti della montagna i rami degli alberi nodosi flagellarono l'aria attorno. La pioggia cadeva spasmodicamente. Le nubi si spostavano indiscriminatamente in ogni direzione. Le foglie, strappate agli alberi mulinavano vorticosamente nell'aria e gli spruzzi d'acqua della cascata venivano spazzati via dalle folate di vento, che trasportavano lontano anche il fragore.
Enormi trombe d'aria si avventavano contro la pila di zavorra che veniva man mano scaricata dall'astronave e trasportavano lontano indumenti, riviste, perfino un materasso. Ma non aveva importanza. Due mondi stavano per scontrarsi in un momento eccezionale in cui si sarebbe venuta a formare la cintura degli asteroidi prima ancora che fosse nata la razza umana. C'era solo una certezza... che quella pianura, quelle montagne — e la caverna — sarebbero rimaste intatte per milioni e milioni di anni.
All'interno della porta stagna, Masters era in piedi accanto a una bilancia per grossi pesi. Lampadine, piatti, argenteria venivano buttati alla rinfusa in ceste che poi venivano pesate e scartate, dopo aver annotato il risultato. Dai cardini furono djvelte le porte, i pavimenti vennero strappati via. Conservarono solo i viveri e l'acqua perché anche se alla fine avessero raggiunto la Terra non sapevano se essa ospitava ancora la vita.
L'astronave, spogliata dall'arredamento, era stata una volta un normale scafo da undici tonnellate per motori H-H. L'arredamento, i viveri e tutto il resto l'avevano portata a tredici tonnellate e alla presenza di una gravità e mezza faceva venti tonnellate. Le cifre di Masters, tenendo conto del punto in cui si trovava l'astronave e che più di metà dei razzi erano fuori uso, erano abbastanza esatte. Il massimo impulso che i razzi potevano permettersi era di circa dieci tonnellate e tre quarti, più o meno una cinquantina di chili.
Masters sollevò gli occhi dall'ultima annotazione con gli occhi cerchiati di rosso. Braker e Yates, fermi sulla porta stagna, lo osservavano.
Negli occhi di Masters passò un lampo di paura. «Perché mi guardate così?» ringhiò. Involontariamente fece un passo indietro.
Yates fece una risatina.
«Mi sembra davvero nervoso. Volevamo solo vedere quanto mancava per raggiungere il peso. Non c'è più niente da buttare».
«Ah, no?» Gli occhi di Master scoccarono lampi. «Abbiamo ancora quattrocento chili di troppo. Che ne dite del macchinario per la contrazione?»
«Ma quello rappresenta la nostra unica speranza di tornare nel presente», osservò Tony «Overland ne ha bisogno per ripristinare il volo».
«Le tute a pressione!»
«Ne terremo sei, nel caso che si verifichi qualche falla nell'astronave».
«Porte!» esclamò Masters come spiritato. «Tappeti!»
«Già andato tutto», disse Tony.
Masters fece schioccare le dita. «Ancora quattrocento chili», disse con voce rauca. Guardò l'orologio: «Ancora undici ore circa». Staccò l'orologio e lo buttò fuori. Sul taccuino fece un'annotazione. «Ecco altri cinquanta grammi andati».
«Io vado a chiamare Overland», decise Tony.
«Aspetti!» Masters sollevò un dito. «Non mi lasci solo con questi due farabutti. Non vedono l'ora di saltarci addosso. Quattro per settantacinque fa trecento».
«Sei picchiato», gli disse Braker freddamente.
«E poi», fece Yates. «Dove troveremmo gli altri cento chili che rimangono?»
Masters sussultò e si rivolse a Tony. «Vede? Vuole sapere dove potrebbero procurarsi i cento chili mancanti!»
«lo scherzavo», ribatté Yates.
«Lui scherzava! Scherzava! Quando ha già cercato di accoltellarmi una volta!»
«Perché», concluse Yates, «il destino vuole solo uno scheletro. E lo troverò».
Poco dopo tornò con Laurette e suo padre.
Overland si mise gli occhiali intanto che ascoltava e il suo sguardo passava da un viso all'altro.
«Sarebbe suicida sbarazzarci anche dei macchinari, di quel poco che rimane. Io ho un altro suggerimento. Togliamo di mezzo tutti i portelli per l'osservazione diretta. Può darsi che arriveremo così a quattrocento chili».
«Come idea non è male», disse lentamente Braker. «Potremmo indossare le tute a pressione. Tanto può darsi che la nave abbia qualche falla».
Masters agitò una mano. «Allora diamoci da fare! Laurette, vieni qui. Sei tu che hai l'anello e non vorrai diventare uno scheletro, no? Mettiti con la schiena al muro con me».
«Oh, Erle», disse lei disgustata e seguì il padre.
Tony andò a riprendere tre seghe per metalli dal mucchio degli attrezzi scartati e i tre uomini girarono per l'astronave segando i portelli dai cardini e strappando tutto il materiale di rivestimento. Ora l'astronave assomigliava veramente a uno scheletro. Il pavimento era solo una grata di metallo.
Portelli e rivestimento furono messi sulla bilancia.
«Duecentocinquanta... duecentocinquantatré... duecentosessantadue... duecentoottanta. Tutto qui!» Dal tono di Masters, l'uomo sembrava andare in pezzi da un momento all'altro.
Tony lo spinse da parte. «Duecentoottanta. Ci può essere un margine di errore, però», aggiunse poi con aria casuale. «Braker... Yates... buttate fuori la bilancia».
I due si chinarono e sollevarono la bilancia il cui peso già stato calcolato e annotato e la portarono fuori...
«Venga, Masters», disse Tony.
Masters gli trotterellò dietro come un cagnolino, quasi avesse perso la facoltà di pensare. Tony prese le sei tute a pressione dalla sala di controllo e le indicò agli altri, che le indossarono.
Tony si agganciò il casco. «E adesso, accenda i motori».
Masters si avvicinò al quadro ausiliario dei razzi, pallido in viso e con gli occhi innaturalmente dilatati.
Fece delle regolazioni minime, poi lentamente abbassò una leva. Un ruggito pieno di vibrazioni si levò nella notte. L'astronave fece un balzo. Ci fu come una sensazione di ondeggiamento. Sul visore la pianura si fece più vicina. Il rombo crebbe. L'immagine rimase inalterata.
Masters rialzò di scatto la leva e si girò di scatto. «Vede?» ansimò. «Gliel'avevo detto!»
Il professor Overland gli fece cenno di tacere con un cenno di mano, un'espressione di dolore negli occhi.
«Faccio questa ammissione quasi a costo della mia sanità mentale», disse lentamente. «Gli avvenimenti hanno preso una piega incredibile. A ritroso. Nel futuro, un futuro così lontano che forse nessuno di noi lo rivedrà mai più, c'è uno scheletro con un anello al dito.
«Ora... è la causa che provoca l'effetto... o viceversa?»
Si tolse gli occhiali, sbatté gli occhi e se li inforcò di nuovo.
«Vedete», disse adagio. «Alcune delle cose che ci sono successe sono incredibili. C'è il... ricordo che ha il tenente Crow di questi avvenimenti. È lui che ha visto lo scheletro ed esso gli ha richiamato dei ricordi. Da dove? Dall'enorme magazzino del passato? Non mi sembra possibile. Per ora il mistero più grosso è proprio il modo in cui lui ha saputo che quello scheletro risale a prima della razza umana.
«Ci sono anche altre cose, forse ancora più incredibili. Tre relitti di astronavi! Una coincidenza incredibile! Poi il fatto dell'anello. Si tratta di... un anello di morte. Dico una cosa che non avrei mai pensato di dire, tenente. Crow ha perfino avuto difficoltà a buttarlo nel fiume. Poi un pesce l'ha inghiottito e l'anello è tornato da me. Quindi mia figlia me l'ha rubato. E si è rifiutata di consegnarlo o di farci sapere cosa intendeva farne per liberarsene.
«A questo punto quindi non so più se siamo noi che stiamo plasmando un futuro o se è un futuro che sta plasmando noi.
«E infine, eccoci al punto culminante di questa follia. Una cosa ridicolissima... semplicemente cento... centoventi chili.
«Così dobbiamo trovare uno scheletro. È il futuro che lo dice».
Ci fu il silenzio e furono investiti dal frastuono del fiume e dalla crescente violenza del vento mareale. Braker emise un sibilo.
«Ha ragione. Qualcuno deve scendere dall'astronave... e restare a terra! E non potrà essere il vecchio, dal momento che è l'unico che sa come riportarci a casa».
«Proprio così», commentò Yates. «Non sarà certo il vecchio».
Masters si ritrasse, ingobbito. «Non guardate me!» ringhiò.
«Non stavo guardando te», osservò Yates con gentilezza.
Tony sentì lo stomaco che gli si irrigidiva. Ecco cosa si doveva passare per scegliere uno scheletro che doveva morire su un asteroide e la cui carne si sarebbe corrotta e sarebbe evaporata e alla fine sarebbe stato ritrovato a milioni di anni di distanza con un anello al dito in una caverna. Ecco cosa bisognava passare prima di diventare degli scheletri...
«Laurette», disse, «non rientra in questa lotteria».
Braker si volse verso di lui. «Col cavolo che non rientra!»
Laurette replicò con voce tagliente: «No, rientro anch'io. Potrei essere proprio io la pagliuzza che ha spezzato la schiena al cammello».
Overland parlò in tono addolorato. «Forse cinquantadue chili potrebbero bastare per portarci al di sopra della scarpata. Signori, organizzerò io questa lotteria dal momento che sono l'unico a non parteciparvi».
Masters cacciò un ringhio e i suoi occhi sprizzarono lampi. «Ma lei avrebbe dei pregiudizi per via di sua figlia!»
Overland lo guardò con curiosità, così come avrebbe guardato un insetto e fece un suono schioccante con le labbra.
Master continuò.
«Pescheremo da un mazzo di carte e la più bassa lo piglia nel gobbo!»
«Sì!» lo schernì Yates. «Col tuo mazzo, immagino!»
«Col mazzo di chiunque!» esclamò Masters.
«Tutte le carte sono state gettate fuori. Come mai le tue no?»
«Perché sapevo che si sarebbe giunti a questo».
«Signori», disse Overland stancamente. «Non servirà un mazzo di carte. Laurette, l'anello».
La ragazza sobbalzò, pallida. Poi disse: «Non l'ho più!»
«Allora», continuò suo padre senza mostrare traccia di sorpresa, «aspetteremo che ricompaia».
Braker gli si avvicinò furioso. «Lei è pazzo! Tireremo comunque a sorte. Anzi, scopriremo dove la ragazza ha messo l'anello».
«L'ho sepolto», rispose Laurette e i suoi occhi sbatterono leggermente. «E sarà meglio lasciarlo sotto terra. Voi state solo dimostrando...»
«Sepolto!» gridò Masters. «Quando avremmo potuto distruggerlo a martellate. Fonderlo con la fiamma acetilenica. Quando avrebbe potuto...»
«Quando avrebbe potuto buttarlo nel fiume in modo che un pesce potesse riportarglielo! Chiudi il becco, Masters». La mascella di Braker assunse un'aria sinistra. «Dov'è l'anello? Lo scheletro deve avere un anello e lo avrà».
«Non intendo affatto dirvelo», la ragazza fece un cenno violento con la mano. «Tutta questa faccenda mi sta facendo ammattire. Non abbiamo bisogno dell'anello per la lotteria. Lasciamolo là, perché no?» I suoi occhi apparvero improvvisamente supplichevoli. «Se lo andiamo a prendere, non faremo che completare una catena di avvenimenti che non...»
Overland intervenne. «Non useremo l'anello per la lotteria. Salterà fuori più tardi da solo e lo scheletro lo avrà al dito. Non è necessario che ce ne preoccupiamo, Braker».
«Invece ce ne preoccupiamo sì e adesso!» disse Yates.
«Be', dovrà esserci, no?» tornò alla carica Braker.
Tony lo interruppe accendendo un fiammifero. Accostò la fiamma a una sigaretta e aspirò il fumo come per calmare i nervi.
I suoi occhi erano duri e attenti. «Abbiamo dieci ore per uscire dalla zona di collisione», disse a labbra strette.
«Allora terremo subito la lotteria», disse Overland. Si voltò e uscì dalla stanza. Tony sentì i suoi passi pesanti che rimbombavano sulla rampa.
I cinque rimasero immobili come statue finché lo scienziato non tornò. In mano aveva un libro. Dalle pagine sporgevano cinque pagliuzze le cui estremità sporgevano in misura uguale dalle pagine del libro.
Overland allungò una mano leggermente tremante.
«Pescate», disse. «Mia figlia pescherà per ultima, così potete essere sicuri che non cercherò di imbrogliare nessuno. Tenente? Braker? Chi vuole cominciare? La paglia più corta perde».
Tony estrasse una pagliuzza.
«La metta a terra ai suoi piedi», disse Overland. «Non si sa mai. Qualcuno potrebbe avere nascosto in precedenza una pagliuzza».
Tony la depose, col viso di pietra.
La paglia era lunga quanto la larghezza del libro.
Furioso Braker esclamò: «Che sia dannato!»
Braker ne estrasse una più corta. La mise giù anche lui.
Yates ne pescò una ancora più corta. Sulla sua fronte pallida comparve improvvisamente del sudore.
«Forza, Masters!» ringhiò con voce stridula. «La legge delle medie dice che lei ne pescherà una lunga».
«Io non credo nella legge delle medie» ribatté Masters imbronciato. «Non su questo pianeta almeno... lascerò l'occasione a Laurctte».
«Oh», fece la ragazza, «molto gentile da parte tua».
E senza esitazione pescò una pagliuzza.
«È corta, vero?» chiese nervosamente Masters.
«Più corta della mia», Yates che aveva trattenuto il fiato lo lasciò andare con un lungo sospiro. «Forza Masters. Rimane solo una sola pagliuzza, così non dovrà fare la fatica di scegliere».
Masters la strappò quasi dal libro.
La mise sul pavimento. Era lunga.
Un grido sfuggì dalle labbra di Overland. «Laurette!»
La ragazza affrontò gli sguardi che la fissavano in silenzio arricciando leggermente le labbra.
«Ecco fatto. Spero solo che i miei cinquantadue chili possano bastare».
Tony buttò via la sigaretta. «Non basteranno», scattò. «Siamo stati degli idioti a mettere anche lei nel mazzo».
Improvvisamente si mise a tener d'occhio Braker di nascosto, coi nervi tesi.
La voce di Overland era un sussurro. «Come avrei potuto proporre di lasciare fuori mia figlia? Io avevo detto che una cinquantina di chili avrebbero potuto fornire il margine necessario. Se avessi consigliato di lasciarla fuori mi avreste accusato di favoritismo».
In tono quasi indifferente Braker disse: «Qui si fa solo una lotteria, sia chiaro».
Yates apparve confuso. «Maledetto idiota», esclamò. «E se noi rimanessimo bloccati qui prima dell'esistenza della razza umana e non ci fosse nessuna donna?»
«È appunto quel che volevo dire. Io ho pensato che fosse giusto includere la ragazza. E se fosse uscita lei, avremmo sempre potuto chiedere a qualche gentiluomo di offrirsi volontario al suo posto».
Improvvisamente fece un movimento, ma Tony fu ancora più rapido ed estrasse fulmineamente il suo Hampton.
«Giù!» ringhiò. «Mollala... ho detto!»
Gli occhi di Braker parvero schizzargli dalle orbite. Questi guardò l'Hampton come se non fosse in grado di comprendere, poi imprecò furioso e lasciò cadere l'automatica come se fosse contaminata dalla radioattività. La pistola cadde con fracasso metallico sul pavimento ormai spoglio.
Un sorriso gelido comparve sulle labbra di Tony. «Adesso ci potrai spiegare dove hai trovato quell'automatica».
Braker, con gli occhi che fumavano come quelli di un animale in trappola, scoccò involontariamente un'occhiata a Masters.
Tony volse leggermente la testa verso quest'ultimo. «Non poteva che essere lei», disse amareggiato.
Si girò di scatto... troppo tardi. Yates si lanciò contro di lui e lo abbrancò al volo. Tony cadde con fracasso in un groviglio unico con Yates. Inutile! Braker, col viso contorto dalla soddisfazione, gli saltò addosso, lottò con violenza, poi con la forza delle sue due mani guantate gli strappò l'Hampton, si rotolò lontano per togliersi dalla portata di Tony e si rizzò quindi in piedi di scatto, ancora ansante.
«Grazie, Yates!» esclamò. «Ora in piedi, Crow. Rialzati. Che uomo. Che massa d'uomo. Pesa almeno cento chili». Le labbra gli si arricciarono con un'espressione vendicativa. «Adesso rialzati e esci!»
Overland fece un passo avanti, incerto.
Braker agitò l'arma tenendoli tutti sotto tiro.
«Indietro lei!» ringhiò. «Questa è la mia festa ed è anche una festa di dubbio gusto. Yates, blocca la ragazza. Masters, non muoverti... se vuoi, puoi essere mio amico. Bene, tenente, vattene e... scava! Cerca l'anello!» Il suo viso si contorse in una smorfia sadica. «Non vorremmo disilludere quello scheletro, no?»
Tony si rialzò lentamente in piedi, col cuore che gli batteva colpi spasmodici contro le costole. I suoi occhi si levarono dolorosamente passando da un viso all'altro finché si fissarono in quelli di Laurette, la quale si lanciò in avanti, sfuggendo alla stretta di Yates.
«Non glielo permetta, tenente», gridò. «È tutto uno sporco trucco. Lei è l'unica persona su tutti e quattro che non se lo meriti. Io...» La ragazza si accasciò e la voce le svanì. Poi si mise a ridere convulsamente. «Mi sono appena ricordata cos'ha fatto quando ci sono piombati addosso tutti quei pacchetti natalizi. Lei mi ha baciata e io l'ho presa a schiaffi, ma in realtà desideravo che lo rifacesse».
Yates scoppiò in una risata cattiva. «Ma senti senti. Masters, tu te ne stai lì a osservarli mentre fanno l'amore?»
Masters rabbrividì, il viso gli divenne grigiastro e sussurrò: «Non è niente. Io voglio solo...»
«Piantatela di blaterare!» scoppiò Braker, irritato.
Come se nessuno avesse parlato. Tony rispose: «Anch'io desideravo baciare lei di nuovo». Tenne fissi i suoi occhi in quelli spalancati e increduli di lei per un attimo, poi li abbassò. Sembrava impossibile rimanere in quella posizione e rendersi conto che quella era la sconfitta e che non era possibile fare nulla per difendersi! Rabbrividì con un innaturale gesto delle spalle.
«Va bene», sbottò Braker caustico, «adesso sbrighiamoci!»
Tony rimase dove si trovava. Braker e tutti gli altri, eccetto la ragazza, si dissolsero. Il viso di Laurette Overland uscì da una nebbiolina teso, sconvolto, adorabile quanto mai. Lacrime le sgorgavano dagli occhi e i suoi singhiozzzi erano soffocati. Per un lungo istante, Tony si beò, furioso, dell'ultima immagine che aveva di lei.
«Tenente!»
«Addio, Laurette», disse lui ottusamente, mentre i suoi occhi aggiungevano ciò che le labbra non esprimevano.
Si voltò e trascinando i piedi si avviò verso la porta stagna come un uomo che lascia il patibolo solo per avviarsi a un destino peggiore. Sulla soglia si fermò. Braker lo pungolò con la pistola, dicendo: «Fuori, sbirro! Cammina!»
E poi uscì. La notte e il vento ululante lo avvolsero e la maligna luce del pianeta invasore lo inondò in pieno.
Molto debolmente udì la voce di Braker che lo salutava ironicamente: «Addio, sbirro». Poi con un senso di definitiva separazione sentì il sibilo del portello stagno che si chiudeva.
Vagò nella notte per una trentina di metri, verso l'enorme pila di materiale che era stato estratto dall'interno dell'astronave, quasi completamente astratto dalla realtà. Il suo era un dolore che andava al di là di ogni dolore e perciò era come soffocato.
Si voltò. Una fiammata livida scoccò fuori dal tubo principale dell'astronave e improvvisamente tutt'attorno si levarono getti di fiamma più piccoli. L'astronave si mosse. Scivolò sulla pianura sorretta dai cursori, rimase aggrappata al suolo per una sessantina di metri, poi piombò giù dal pendio. Tony si ritrovò a imprecare in preda alla tensione. Ancora una trentina di metri. Più avanti si apriva la scarpata.
Tony levò le braccia in aria agitandole violentemente.
«Sollevati!» gridò. «Sollevati!»
Il muso dell'astronave si levò verso l'alto e le sue corte ali fecero presa sul vento, poi l'astronave si allontanò rombando dalla pianura e sfuggì al baratro per soli tre o quattro metri. L'eco delle esplosioni soffocarono addirittura l'ululato del vento, poi l'eco morì e rimase solo un puntolino luminoso simile a un gioiello che continuava ad allontanarsi. E infine... non ci fu più nulla.
Tony continuò a guardare, conscio che la pelle degli zigomi era asciutta e tirata. Poi le braccia levate verso l'alto gli ricaddero. Una risatina gli sfuggì dalle labbra. Girò sui calcagni. Il vento era così furioso che poteva addirittura appoggiarvisi di peso. Era notte e sebbene la piccola luna fosse invisibile su quel mondo preesistente agli asteroidi, il cielo era invaso da un maligno chiarore biancastro del pianeta invasore che appariva ancora come una mezzaluna. Tony poteva vedere chiaramente la grande immensità che era racchiusa dai suoi corni illuminati. Il cielo alla sua sinistra era per due quinti occultato dall'enorme mostro t in quel momento sui mari le onde dovevano spazzare con violenza le coste per via delle abnormi maree.
Il tenente rimase immobile. Non aveva la minima idea della direzione da prendere. C'era una infinità di direzione e non aveva senso sceglierne alcuna. Qual era il tipo di mente che avrebbe potuto sceglierne una?
Quel pensiero andò perso. Tony si mosse verso l'ultimo legame che aveva con l'umanità, con Laurette. Si fermò accanto alla pila di zavorra. C'era una scatola di cartone indirizzata al professor Henry Overland e una breve fila di francobolli annullati lo fissavano come per sottolineare la non esistenza di tutto ciò che sarebbe stato. L'America, il Natale e l'ufficio postale.
Sogghignò. A vuoto. Era persino difficile sapere che fare della propria faccia. Lui era l'ultimo uomo su un mondo perduto. E anche se era condannato a morte in un tremendo e inimmaginabile olocausto, era giusto che avesse una meta, qualcosa che gli desse una ragione di vita fino al momento stesso della morte!
Con un grido di belva intrappolata si portò le mani guantate al casco. Poi ebbe un pensiero. Ma certo. L'anello! Doveva trovare quell'anello e l'avrebbe fatto. L'anello doveva stare con lo scheletro. E lo scheletro con l'anello. Il tenente Crow, non c'erano assolutamente dubbi, doveva essere quello scheletro che gli aveva sogghignato in faccia a tanti secoli di distanza... nel futuro.
Un compito inutile, naturalmente. Le ore passarono e lui continuò a vagare per la pianura esaminandone ogni centimetro quadrato alla ricerca di un segno rivelatore di una zolla di terra rivoltata di fresco. Andò fin sull'orlo del fiume e si trovò avvolto dagli spruzzi dell'acqua spumeggiante. Ma dell'anello che doveva trovare non c'era traccia.
Dove poteva averlo seppellito Laurette? In che modo aveva funzionato la sua mente? Certo non poteva averlo sepolto così spietatamente, nascondendolo per l'eternità quando lui ne aveva bisogno per lo scheletro in cui doveva trasformarsi!
Le ore volavano e lui lo sapeva. Ma era meglio ammattire per uno scopo tangibile e positivo che per quello intangibile e negativo consistente nell'aspettare il mostro che ormai se la faceva da padrone in cielo.
Che situazione grandiosa. Un viaggio nel tempo, un testimone all'origine degli asteroidi. Allo stesso modo si sarebbe potuto viaggiare nel tempo e comprendere finalmente l'inimmaginabile e misterioso processo mediante il quale si era venuto a creare il sistema solare. Nulla di così semplice quanto una collisione. O quanto il passaggio di una stella binaria accanto a una stella isolata. O quanto una nebulosa roteante, ma qualcosa che sarebbe stato connesso con l'espansione dell'universo, in una maniera grandiosamente semplice. Ma tutto è semplice quando si conoscono le risposte. Per esempio...
L'anello! Sì, era semplicissimo. Perfino Laurette Overland sarebbe stata costretta a cadere di fronte al risultato che influenzava la causa!
La tensione svanì lasciando posto al sollievo. Non si poteva ingannare il futuro. Era chiaro. Laurette aveva sepolto l'anello nella caverna. A meno che non volesse dimostrarsi particolarmente perversa. Ma non lo sarebbe stata in una questione del genere. Il futuro e il presente esigevano cooperazione se doveva esserci un futuro logico!
Facendo forza contro un vento che soffiava furiosamente, Tony raggiunse la spaccatura nel fianco della montagna. Lo scheletro non c'era, naturalmente. Ma ci sarebbe stato... e avrebbe avuto l'anello al dito. Incredibile come il futuro plasmi il suo stesso passato! Era come se il suo stesso scheletro, che era esistito milioni di anni nel futuro, e sul quale ora c'era la sua carne, gli dicesse chiaramente quanto doveva fare.
Scavò con fredda metodicità cominciando dal fondo della caverna, ma non c'era nessuna traccia dell'anello né della terra smossa di fresco. Si tolse i guanti, li mise accuratamente da parte e si mise a scavare con un sasso appuntito.
Nessuna traccia dell'anello! Le ore passarono. Cosa doveva fare? I suoi pensieri si acuirono per la disperazione. Rimaneva ancora un'ora o poco più. Poi sarebbe venuto lo scontro... e la morte.
Lui era nella caverna! Lui, lo scheletro!
Si sdraiò sul dorso, con la testa sorretta dalle mani intrecciate. Gli alberi, i rami e le foglie erano squassati da un vento di tempesta e strappati dalle loro sedi. Fra poco, nel cielo, sarebbero galleggiati i resti di quel mondo. Milioni di anni sarebbero passati e un certo tenente Tony Crow, sulle piste di tre criminali, sarebbe atterrato lì vicino, avrebbe cercato in quella caverna e avrebbe visto il proprio scheletro... senza saperlo.
Rimase lì sdraiato, in attesa, teso. Il vento avrebbe strappato l'anello alla terra, lo avrebbe proiettato nell'aria e lui avrebbe sentito un tintinnio. Perché l'anello sarebbe arrivato fin lì e avrebbe urtato contro le pareti della caverna. L'avrebbe raccolto e se lo sarebbe infilato al dito. E pochi istanti dopo, sarebbe venuto il fragore... la profonda vibrazione... l'urlo lacerante... lo scontro cosmico... il... il bang di un mondo che si frantuma. Bang!
Ascoltò, in attesa dell'anello.
Ascoltò e udì una voce che urlava nel vento.
Si costrinse con uno sforzo ad alzarsi in piedi e rimase così, col sangue che gli batteva spasmodicamente nelle tempie, le labbra semiaperte e tremanti. Non ci poteva essere un rumore del genere. Perché lui era l'ultimo essere vivente su quel mondo. Perché quel grido poteva essere solo quello di Laurette Overland che lo chiamava.
Ma naturalmente non era lei. Non poteva esserlo. Questa era solo una di quelle cose che precedevano la preparazione di uno scheletro con un anello... Alt!
Si portò fuori dalla caverna, in mezzo al vento. Ma non sentì nulla... era proprio così? Uno scalpiccio di piedi... come può fare la morte quando corre.
Un grido!
Tony aggirò di corsa il costone della montagna e rimase lì ansante, stringendosi tra le mani fredde e tremanti la testa coperta dal casco.
«Tenente!»
Una voce colpì la sua immaginazione in mezzo a quel vento ululante.
Non voleva crederci.
Una forma umana che usciva incespicando dalla notte pallida. Che correva verso di lui gridando delle parole che il vento portava subito via. E quella sagoma era Laurette Overland, una sagoma che si formava nella sua immaginazione ora che era completamente ammattito.
Aspettò a piè fermo, freddamente divertito. Non sarebbe servito gran che a farsi ingannare. Eppure... eppure... l'anello doveva tornare: da lui. E questa era Laurette Overland e glielo stava portando perché se lo infilasse al dito. Questo era un gesto molto egoistico da parte sua. Se aveva lei l'anello, e l'aveva recuperato lei, perché non lo portava lei?
In questo caso sarebbe stata lei lo scheletro.
In questo caso ci sarebbero stati due scheletri!
La mente di Tony si cristallizzò, poi si librò di nuovo verso la vita e la sanità. Un freddo grido di dolore gli sfuggì. Fece un passo avanti, incespicando e afferrò la ragazza tra le braccia. Anche attraverso le pieghe della sua tuta a pressione poteva sentire la morbida saldezza del suo corpo.
Le labbra di Laurette. rosse e piene, messe in risalto dal pallore del suo viso si aprirono e ne uscirono delle parole, ma Tony non riuscì a comprenderle perché quel vento sconvolgente e il freddo orrore che gli dilacerava la mente tagliarono parole e frasi intere.
«...dovuto... uscire. Cinquanta chili». Sentì la sua risata isterica. Cpsì l'astronave aveva cominciato a cadere. Lei si era lanciata fuori ed era planata a terra sorretta dai getti di fiamma che fuoriuscivano dai razzi incorporati sulle spalle della sua tuta. Tony venne a sapere tutta la storia. Laurette aveva lottato per ore e ore per aprirsi la strada verso la pianura. Perché ricordava qualcosa. L'astronave era scomparsa. Al sicuro. E lei ricordava qualcosa che era importante e che aveva a che fare con lo scheletro e l'anello. Lei doveva uscire. Era la sua parte in quel grandioso e terribile gioco attraverso i millenni... i milioni di anni. Li doveva recuperare l'anello.
Tony la tenne a distanza e le guardò le mani guantate. Sì, c'era del fango su di esse. Così l'anello non si era mai trovato nella caverna.
Gli occhi di lui si alzarono con un brivido verso quelli della ragazza.
«Mi dia l'anello», dissero lentamente le sue labbra.
«No, no tenente», ribatté lei in un fiato. «Non sarà così. Ma non capisce? È Amos! Amos!»
«Lei deve essere pazza a essere tornata!» ansimò Tony. Improvvisamente fu scosso da un attacco di furia cieca. «Lei è pazza, pazza da legare!»
Con forza le torse le mani e gliele aprì. Ma non c'era nessun anello. La scosse malamente.
«Dov'è l'anello? Me lo dia, piccola stupida! Se ce l'ha lei... se pensa anche solo per un momento di... non può fare questo...»
Il vento portò via le parole da lei e ciò che stava dicendo andò perduto per lui.
Tony smise di parlare e con fredda ferocia la strinse con un braccio e con l'altra mano prese a slacciarle i guanti a mani nude. Laurette si difese improvvisamente come una tigre. Si scostò da lui con uno strattone e indietreggiò di scatto di tre passi. Poi alzò per un breve istante il viso verso il cielo, verso il mostro che continuava a ingrandire. Tony poteva leggerle chiaramente in viso l'orrore. La collisione! Era ormai una questione solo di secondi! E lui, il vero scheletro, non aveva l'anello!
Avanzò verso di lei, un passo per volta, lentamente, gli occhi spiritati e la mascella irrigidita per la tensione.
Lei gli passò davanti di corsa. Lui si girò di scatto e la inseguì ansando freneticamente. E ogni passo che compiva si faceva più pesante, perché il momento era giunto. La collisione stava per verificarsi. E la ragazza correva verso la caverna.
Laurette svanì al di là del costone. La caverna la inghiottì. Tony rallentò il passo, poi si fermò respirando a fondo. Quindi entrò nella caverna e affrontò la ragazza. L'ululato del vento era diminuito.
«Non abbiamo molto tempo né per chiacchierare né per combatterci, tenente», gli disse Laurette, gelida. «Lei si sta comportando come un pazzo. Prenda». Si chinò raccolse i guanti di lui e glieli porse. «Se li metta».
Lui disse: «Mi dia quell'anello».
Lei lo fissò nella penombra con occhi innaturalmente dilatati.
«E va bene», disse. Si slacciò il guanto dalla mano destra e si avvicinò a lui, fissandolo negli occhi. «Se desidera proprio essere lei quello scheletro, faccia pure».
Tony sentì le dita di lei che gli toccavano la mano, poi sentì un oggetto freddo che gli saliva su per le dita e infine avvertì il tocco dell'anello attorno al dito. Sì, ora l'anello era dove doveva essere. Lo sentiva... freddo. Ma non poteva essere forse un gioco della sua immaginazione? No, di certo. Lei non avrebbe cercato di ingannarlo, tuttavia gli occhi di Laurette erano ipnotici e lui provava come un senso di vertigine. Capì che avrebbe dovuto resistere. Ma lei gli infilò il guanto a forza sulla mano destra e Tony sentì il clic della fibbia a scatto. Poi gli fu infilato anche il guanto sinistro e anche questo fu agganciato.
Le braccia di lei gli scivolarono attorno al collo. Negli occhi di Laurette brillavano senza ritegno delle lacrime.
«Tienimi stretta, tenente», gli sussurrò, passando per la prima volta al tu. «Sai... sai forse c'è una possibilità ancora».
«No che non c'è, Laurette. Non può esserci. Io ho l'anello al dito».
La sentì trarre un profondo respiro. «Naturalmente... hai l'anello al dito! Penso che ormai non possa mancare molto, tenente. Tienimi stretta». La sua voce era come un piagnucolio di bimbo. «Forse sopravviveremo».
«Io no. Forse tu».
«Questa caverna, questa stessa montagna, sono sopravvissute al disastro. E magari sopravviveremo anche noi. Tutti e due».
Era illogica e lui lo sapeva. Ma ormai era sprofondato in uno stato mentale completamente apatico. Che credesse pure a ciò che era impossibile. Lui aveva l'anello al dito. Lui.
Ma era davvero così?
Ebbe un sobbalzo. Lui aveva sentito il freddo del metallo che gli circondava il dito. Aveva pensato di sentirlo! Mosse le dita. E si sentì avvolgere da un profondo senso di sconfitta totale che gli diede la nausea. Questa era la sconfitta. Era lei che aveva l'anello! E sarebbe stata lei lo scheletro!
Non c'era tempo per cambiarlo di mano. Non ce ne sarebbe stato. Il sangue gli corse alla testa e gli diede le vertigini. Fissò Laurette negli occhi e la tenne inchiodata così, cercando di farle sapere in quell'istante supremo che lui sapeva cosa aveva fatto lei. Laurette si morse il labbro e sorrise. Poi... il viso le si rannuvolò. Si rannuvolò come si rannuvolarono i pensieri di lui. Era così.
Non udì nessun fragore perché quello che si sentiva era un suono senza suono. Era semplicemente lo scontro frontale di due pianeti che si erano scontrati e si appiattivano l'uno contro l'altro nell'incommensurabile istante in cui la coscienza veniva strappata e frammenti di roccia, alcuni enormi, altri minuscoli roteavano attorno al di sotto del cerchio di collisione. Il pianeta aveva spalancato una bocca enorme. Un puzzle di pezzi a incastro, un Humpty Dumpty che tutti i cavalli del re e tutti gli uomini del re non avrebbero mai potuto rimettere insieme. Questo era il possente preludio alla formazione di una cintura di asteroidi e di uno scheletro di ragazza sull'Asteroide 1007.
Lui era vivo.
Vivo e pensante.
Non sembrava possibile.
Era incuneato nel fondo della caverna. Un masso occludeva la luce e uno spuntone sporgente lo inchiodava leggermente contro il muro alle spalle. Respirava. La sua tuta era gonfiata a dieci libbre di pressione. Delle spire elettriche gli tenevano il colpo al caldo. Era vivo e nel suo cervello stavano cominciando a formarsi dei pensieri. Dei pensieri lenti e privi di senso. Pensieri che erano illogici. Non riusciva neppure a indursi a provare emozioni. Era inchiodato lì al buio e là fuori c'era un asteroide privo d'aria con una gravità ridotta e un'altezza di trenta chilometri.
Laurette Overland sarebbe stata morta e avrebbe portato l'anello. Delle lacrime gli bruciarono senza ritegno gli occhi.
Da quanto era incuneato a quel modo nella grotta: minuti, ore, giorni? Dove erano ora Overland, Masters, Braker e Yates? Sarebbero atterrati adesso e gli avrebbero tolto di dosso quel macigno?
Improvvisamente qualcosa parve scuotere la montagna e sentì le vibrazioni che gli attraversavano il corpo. Quali ne erano le cause? Delle esplosioni interne? Le conseguenze di una collisione? Questo non sembrava probabile, dal momento che le vibrazioni erano state brevi, appena percettibili.
Rimase lì incuneato coi pensieri che si rifiutavano di lavorare se non con monotona regolarità. E soprattutto pensò allo scheletro; e così lo scheletro era davvero esistito prima della razza umana!
Dopo un po', avrebbe potuto essere cinque minuti, un'ora o più, cominciò ad avere coscienza di braccia, gambe e di un cuore che batteva lentamente. Sollevò lentamente un braccio, come un automa che è giunto alla vita dopo secoli di immobilità e provò a spingere il masso che lo bloccava. Gli sembrò che si spostasse con facilità. Si mise di fianco e impresse un poderoso moto ondulatorio al masso finché questo rotolò avanti e si fermò. La luce di un cielo stellato nella nera notte che incombeva sull'Asteroide 1007 si riversò sopra il macigno. Bene. C'era un sacco di spazio per uscire strisciando... fra poco. Si appoggiò al masso con sangue che gli fluiva debolmente nelle vene.
Poi avvertì una vibrazione così minima che avrebbe anche potuto essere uno scherzo della sua immaginazione. O forse era stata l'astronave che era atterrata sull'asteroide. Questo almeno era abbastanza verosimile, tanto da indurlo ad accendere la radio incorporata nel casco.
Ascoltò e udì il monotono ronzio di un'onda portante; o era il sordo pulsare del sangue contro le sue tempie? No, non poteva essere. Si sforzò di ascoltare, mentre nella sua mente si insinuavano dei pensieri coerenti.
Poi:
«Avanti, professore... Masters». Quella era la voce di Braker! «Qui impazziremo tutti se non scopriremo a chi appartiene lo scheletro».
Poi Braker aveva fatto atterrare l'astronave, dopo essere sfuggito all'olocausto che aveva frantumato quel mondo che aveva preceduto gli asteroidi! Tony per poco non si lasciò sfuggire un rauco respiro, poi si trattenne con uno sforzo. Se Braker l'avesse sentito, avrebbe potuto sospettare qualcosa. Qualunque fossero i piani che ora aveva in mente Tony, il primo e più importante era quello di strappare l'Hampton a Braker.
Con voce priva di vita Overland mormorò: «Se si tratta di mia figlia, preferirei che andasse prima lei, Braker».
Masters rispose: «Vado avanti, professore. Farei qualsiasi cosa per...» la voce gli si interruppe.
Overland mormorò: «Non se la prenda così, figliolo. Abbiamo tutti i nostri momenti neri. Tanto non può trattarsi di uno scheletro».
«Perché no?» Quello era Yates. Poi: «Oh, sì! Non potrebbe esserlo, vero, professore? Lei sa bene che questa è la cosa più sballata che sia mai successa. A volte mi viene proprio da ridere! Avanti e indietro che bel divertimento!»
«Finnegan», terminò Braker con aria assente. «Ehi, non capisco proprio questa faccenda temporale. Lei dice che la gravità di questo pianeta ci tratteneva indietro nel tempo come un elastico ben teso. Poi quando il pianeta è saltato, l'elastico si è rotto... e non c'è più stata forza di gravità. E noi siamo stati risucchiati nel nostro tempo vero. Ma se Crow e sua figlia non fossero stati risucchiati anche loro? Allora dovremmo trovarne lo scheletro... o magari due».
«La forza di gravità dell'asteroide non sarebbe sufficiente per trattenerli», spiegò Overland stancamente.
«Allora non capisco proprio», scattò Braker con una nota di disperazione nella voce. «Questo è il presente, il nostro vero presente. Laggiù c'è quel cornicione che ci ha fatto fracassare l'astronave, perciò questo deve essere proprio il presente. E allora come mai Crow ha detto di aver visto uno scheletro? Senta», aggiunse in uno scoppio di collera, «crede possibile che quello sbirro ce l'abbia data a bere a tutti? Perché all...»
«Via, comportati da adulto!» sbottò Yates. «Crow diceva la verità».
Overland ritorse. «Lo scheletro sarà là. Il tenente l'ha visto davvero».
Masters: «Forse ha visto il suo di scheletro».
Yates: «Ehi, proprio così!»
Braker: «Perché no? Lo stesso anello si trovava in due posti diversi nello stesso tempo, perciò penso che lo stesso scheletro potrebbe trovarsi contemporaneamente in Crow e nella caverna. Questo è un dato di fatto e non saranno le chiacchiere a negarlo».
A Tony la testa girava. Ma di cosa diavolo stava parlando quella gente? Stavano forse insinuando che l'annullamento della gravità, quando il pianeta si era spezzato, aveva provocato il ritorno di tutti nel presente, come se fosse stato rotto un qualche legame di natura ignota? Le mani cominciarono a tremargli. Naturalmente era possibile. La fuga di gravitoni li aveva proiettati nel passato. Ed erano i gravitoni, l'essenza stessa della forza di gravità, che li aveva trattenuti là. E quando quella gravità e mezza si era dissolta, quando i gravitoni erano così lontani da non esercitare più alcuna tensione, tutto era tornato indietro... nel presente!
Tutto! Il pensiero lo raggelò. Da qualche parte, in qualche modo, c'era qualcosa che assolutamente non andava. La testa gli faceva male. Si strinse le mani e ascoltò di nuovo. Per un intero minuto non si udì più nessuna voce. Tony se li immaginava mentre camminavano, Masters e Overland alla testa, Braker e Yates dietro, diretti verso la caverna. Overland doveva avere il terrore di ciò che vi avrebbe scoperto.
Poi: «Svelto, professore. Ormai dovremmo esserci».
Overland sussurrò qualcosa raucamente. «Ci siamo, Braker. Mio Dio!» Dal suono della voce sembrava dovesse crollare.
«Lo scheletro!» scoppiò Yates con voce alterata. «Oddio, professore, lei pensa... oh, certo... loro non sono stati risucchiati indietro».
Bianco come il gesso e tremante, Tony si arrampicò sul masso e una volta a metà si arrestò. Da lì poteva osservare l'esterno senza essere visto. Da lì era visibile l'intero pavimento della caverna e su di esso giaceva lo scheletro biancheggiante con l'anello che sprizzava lampi dall'anulare!
Laurette!
Sollevò la testa, conscio che gli occhi gli facevano male. Attraverso un velo indistinto vide poi Braker, Yates, Masters e Overland a una decina di metri dalla caverna che fissavano in assoluto silenzio lo scheletro.
Con voce malferma Braker disse: «È maledettamente strano, no? Noi sapevamo che ci sarebbe stato ed ora eccolo lì e siamo tutti senza fiato».
Yates si schiarì la gola e disse con fermezza: «Sì? Ma a chi appartiene? A Crow o alla ragazza?»
Overland fece un passo avanti, cercando di forzare i suoi deboli occhi.
«Non è uno scheletro molto lungo, vero?» sussurrò.
Braker parlò con asprezza. «Adesso non cerchi di fare i giochi di parole, professore. Da qui non può vedere tanto bene lo scheletro da dire di chi si tratta. Masters, smettila di tremare». Nelle sue parole si sentiva il disprezzo. «Spostati di là e non cercare di fare scherzi strani come hai fatto prima sull'astronave. Avrei dovuto spararti, sicuro. Io vado a dare un'occhiata allo scheletro».
Poi avanzò lateralmente con la mano sul fianco dove teneva l'Hampton nella fondina.
Raggiunse l'imboccatura della caverna e guardò lo scheletro con la fronte aggrottata. Poi si inginocchiò. Tony vide che aveva il viso sconvolto dalla repulsione, ma Braker non si mosse e rimase inginocchiato a guardare come affascinato.
Tony stirò le labbra e scoprì i denti. Adesso era giunto il momento di regolare i conti con Braker! Si arrampicò fino in cima al macigno, si irrigidì e poi si lasciò scivolare dall'altra parte, ricadendo in piedi. Fece un passo avanti e si piegò sulle ginocchia.
Braker sollevò la testa.
Il viso gli si contorse in una maschera d'orrore.
«Tu!» gridò. Gli occhi parvero schizzargli dalie orbite.
Tony balzò.
Braker cadde all'indietro, il viso mortalmente pallido, e con la mano cercò di artigliare l'Hampton, ma prima che riuscisse a usarlo Tony gli fu di sopra. Inchiodò Braker al suolo, cercando di impadronirsi dell'Hampton e lanciando cocenti imprecazioni. Nel casco risuonò immediatamente una cacofonia di voci. E con la coda dell'occhio vide Overland, Masters e Yates. E Yates stava arrivando di corsa.
Tony si impadronì dell'arma e fece un possente sforzo, mentre i muscoli dello stomaco gli si irrigidivano sotto la tensione.
Braker gli vibrò un calcio nel diaframma coi suoi stivaletti pesanti, cercando di forare la tuta a pressione e Tony fu costretto a ricadere sulla schiena, mentre il viso sudato di Braker gli sogghignava senza allegria sul muso.
Improvvisamente le stelle furono occultate dal corpo di Yates che cadde in ginocchio e inchiodò Tony al suolo e, aiutato anche da Braker, riuscì a liberare l'Hampton dalla stretta del tenente.
«Questa dalla a me!» risuonò la voce di Masters, acutissima. Grazie alla sorpresa lo scienziato riuscì a strappare l'arma a Yates. Tony si gettò tra i piedi del fuorilegge, mentre questi si lanciava addosso a Masters con un ringhio, lo afferrò per le estremità. Yates cercò invano di liberarsi, ballonzolò senza speranza, poi cadde in avanti di schianto. Ma andò a sbattere contro Masters il quale stringeva l'arma con così poca forza che questa volteggiò in aria e ricadde presso l'imboccatura della caverna.
«Prendila!» gridò la voce di Braker, mentre questi si alzava in piedi. Masters era davanti a lui e con uno spintone scostò Braker con violenza. Yates allungò un braccio e fece inciampare Masters così che Braker poté proseguire la corsa verso l'Hampton. Ma un istante dopo si bloccò di colpo.
Una figura era uscita dalla caverna, aveva raccolto da terra l'arma e aveva detto con voce gelida e inequivocabile: «Su le mani voi due. Braker... Yates!»
Braker emise un lungo sospiro, rabbrividendo e si lasciò cadere sulle ginocchia che più non lo reggevano.
La sua voce era orribile a udirsi. «Sono impazzito», disse semplicemente il fuorilegge e non si mosse dalla posizione inginocchiata continuando a tenere levati gli occhi verso quella figura che pareva l'incarnazione di un morto tornato alla vita.
Il sangue prese a pulsare nelle tempie di Tony finché la pulsazione non divenne uno scatenato e insopportabile diapason tanto che dovette levare le mani al casco per stringerlo come per far cessare quella tortura.
Poi:
«Laurette», sussurrò lui con voce spezzata. «Laurette!»
C'erano sei esseri umani davanti alla caverna.
E sul pavimento c'era uno scheletro.
Quanto tempo durasse quella scena, Tony non ebbe modo di saperio. Il professor Overland stava alla sinistra di Tony, con le braccia levate a metà e un'espressione di sofferenza sul viso. Masters, sdraiato a terra sullo stomaco, faceva forza sul terreno con le mani per sollevare la testa e guardare. Yates, pressoché nella stessa situazione era diventato di pietra. Braker aveva ricominciato a respirare e emetteva dei singulti soffocati.
E la ragazza, Laurette, colei che avrebbe dovuto essere lo scheletro, era lì sull'imboccatura della caverna col viso indescrivibilmente pallido e teneva puntato l'Hampton contro Braker e Yates.
La sua voce tagliò il silenzio.
«Si tratta di Amos», disse Laurette. Poi, in silenzio, guardò il viso sparuto di suo padre, con un sorriso teso.
«Amos», ripeté raucamente il professore, non dicendo altro, ma mostrando con quell'unica parola di aver compreso la straordinaria verità. Avanzò di tre bassi, barcollando. «Noi abbiamo pensato... abbiamo pensato...» Sembrò incapace di continuare. La voce gli si spezzò per il pianto. E umilmente disse: «Avevamo pensato che fossi tu lo... ma no! È quello di Amos!» La sua voce si levò isterica.
«Basta! Smettila!» comandò la voce di Laurette. Poi in tono più dolce e affettuoso aggiunse: «No, non sono io lo scheletro, nient'affatto, papà. Lo scheletro era Amos. È stato sempre e solo lui. Non me ne sono resa conto fino al momento in cui l'astronave è ripartita. Poi è sembrato che essa stesse per cadere e ho pensato che i miei cinquantadue chili potessero servire e che comunque il tenente era rimasto tutto solo quaggiù. E questo mi ha fatto anche pensare a tutti i pacchetti natalizi che gli erano piombati addosso quando l'avevo schiaffeggiato». Fece una risatina incerta. «E questo mi ha fatto ricordare anche che l'università ti aveva inviato un regalo con la scritta "Non aprire prima di Natale" sul pacco. Mi sono ricordata che tu stavi per lasciare l'università e loro volevano farti un regalo che fosse nel contempo un regalo d'addio e un regalo per Natale. Tu non lo sapevi, ma io sì, che gli insegnanti avevano previsto che non saresti riuscito a rientrare prima di Natale e così hanno inviato il regalo sull'astronave. Tu avevi sempre detto a tutti quanto ammiravi... Amos. Era appeso sul muro dell'aula di biologia, ricordi? E improvvisamente ho capito come dovevano stare le cose. Ho fatto due più due e ho rischiato».
La ragazza tacque e il silenzio durò per un altro minuto pieno di tensione. Laurette continuò senza sforzo.
«Noi abbiamo gettato tutto fuori dall'astronave, ricordi?» Anche i regali di Natale. Più tardi, quando sono precipitata dall'astronave, ho raggiunto la pianura e ho aperto l'imballaggio con su l'etichetta "Non aprire" e dentro c'era Amos tranquillo come un angioletto. Gli ho messo l'anello al dito e l'ho lasciato lì sapendo che il vento, o le scosse o qualsiasi altra causa l'avrebbero sospinto nella caverna. Perché lui doveva comparire nella caverna.
«Ma comunque», aggiunse la ragazza, con un sorriso ironico, «secondo il nostro tempo era già il 25 dicembre».
Masters si rizzò a fatica sulle ginocchia, con le labbra semiaperte.
«Un regalo di Natale!» gracchiò. «Un regalo di Natale!» Il suo volto divenne bianchissimo.
«Piantala, Erle!» sbottò la ragazza con voce insicura.
Laurette si appoggiò al muro della caverna, come presa da una improvvisa debolezza. «E adesso vieni qui, tenente, e prendi tu questa pistola e smettila di guardarmi come se ti avesse dato di volta il cervello».
Tony si costrinse ad alzarsi in piedi con uno sforzo e come un automa girò attorno a Braker e Yates e le tolse di mano l'arma.
Lei sospirò stancamente e con allegria gli sussurrò: «Buon Natale, tenente!» E scivolò al suolo.
Tony fece un gesto a Masters in silenzio e questi, col viso vergognoso in modo abietto, la raccolse con delicatezza tra le braccia.
«Venga qui, professore», disse Tony pacatamente. Gli sembrava di essere stato prosciugato di ogni stilla vitale.
Overland si fece avanti, scuotendo la testa per l'emozione. «Amos!» sussurrò. Scoppiò in una risatina semi-isterica, poi si controllò e girò attorno a Laurette, osservandone il viso stanco. «Se non altro la mia bambina è ancora viva», sussurrò con voce rotta.
«Alzati, Braker», ordinò Tony. «E anche tu, Yates».
Yates si alzò in piedi, spazzolandosi la tuta con la mano per far cadere la polvere, le sue labbra si sforzavano di dire qualcosa che si rifiutava di uscire.
La voce di Braker era un sussurro rauco e incredulo. I suoi occhi erano anormalmente dilatati e fissi, come ipnotizzati, sullo scheletro. «Allora abbiamo passato l'inferno solo per questo... per un maledetto scheletro scolastico». Ripeté la frase. «Per un maledetto scheletro scolastico!»
Si alzò in piedi, sforzandosi di riassumere un atteggiamento normale. «E così ci ritroviamo pressoché al punto di partenza, eh? Be'», aggiunse in tono amaro. «Buon Natale». Costrinse con uno sforzo le sue labbra a un sorriso cinico.
Il volto di Tony si rilassò e il tenente respirò a fondo una boccata d'aria che gli era necessaria. «Certo... certo... buon Natale. A tutti quanti. Compreso Amos... chiunque sia stato a suo tempo».
Nessuno sembrava avere alcunché da dire. O forse i pensieri di tutti erano rivolti a un mondo che aveva preceduto la nascita degli asteroidi. E ricordavano. O almeno Masters ricordava, se quella sua espressione sofferente e in preda al rimorso voleva dire qualcosa.
Fu Tony a rompere il silenzio. «E così è finita, eh? Ora possiamo tornare all'astronave. E da lì alla Terra. Professore, Masters... in marcia», disse poi, facendo loro cenno d'avviarsi con un gesto stanco.
Masters si mise in cammino senza guardarsi indietro, trasportando sempre la ragazza che respirava tranquilla ma era ancora svenuta. Overland lanciò un'ultima occhiata allo scheletro, a Amos, il quale giaceva completamente ignaro dello scompiglio che aveva provocato la sua presenza in quel posto, così lucido e perfetto con un anello al dito. Overland si allontanò in fretta dietro Masters. Amos sarebbe rimasto dove si trovava.
Tony sorrise truce a Braker. Con la mano libera fece un gesto.
«Non vuoi riprenderti l'anello, Braker?»
Braker sobbalzò. Fissò l'anello, poi Tony e strinse i pugni. «No!»
Tony sogghignò... per la prima volta da tre settimane.
«Allora andiamo».
Fece un gesto. Braker e Yates si avviarono, fianco a fianco, verso l'astronave. Tony li seguì da dietro. Si voltò solo una volta e fu per osservare la sua piccola astronave di pattuglia che giaceva alla base della montagna in un cumulo di rottami. Un brivido gli passò la spina dorsale. Ormai non rimaneva che un mistero. E la sua soluzione sarebbe venuta ugualmente a Tony Crow, nonostante i suoi sforzi per ricacciare in fondo alla mente le folli implicazioni che tutto ciò comportava...
Il professor Overland e Masters trasportarono Laurette nella sua cabina. Tony scortò i due fuorilegge nel saloncino, chiedendosi come avrebbe fatto a legarli. Risolse il problema Masters che entrò con un rotolo di filo elettrico. Non disse nulla, ma si limitò ad assicurare Braker e Yates al corrimano, mentre Tony li teneva sotto il tiro dell'Hampton. Quando ebbe finito, Tony controllò il lavoro e Masters trasalì, pur senza dire nulla.
Dopo, mentre andavano verso la cabina di Laurette, Masters lo fermò. Il suo viso era pallidissimo e teso nella penombra.
«Non so proprio come dirlo», cominciò sgarbato.
«Dire cosa?»
Gli occhi di Masters sfuggirono i suoi, poi con un deliberato sforzo di volontà tornarono a fissarlo.
«Che mi spiace».
Tony lo studiò, notò la piega della bocca atteggiata a un'espressione di sofferenza e il dolore che gli si leggeva negli occhi.
«Sì, lo so come si sente», mormorò. «Ma credo che ormai abbia rimediato al mal fatto quando ha affrontato Braker e Yates. In questo momento potrebbero essere stati loro a usare il cavo elettrico su di noi». Fece un sorriso e batté cordialmente la mano sul braccio di Masters. «Lasci perdere, Masters. Io sono con lei».
Masters riuscì anche lui a sorridere e emise un lungo respiro, poi si mise al passo veloce di Tony. «Laurette sta bene».
«Bene, tenente», disse Laurette, stirandosi pigramente e alzando il viso sorridente. «Credo proprio di avere avuto le ginocchia in pappa all'ultimo minuto».
«Come se noi no!» Sorrise Tony, lasciandosi cadere in ginocchio. Laurette aveva ancora indosso la tuta a pressione e giaceva sul pavimento. Lui l'aiutò a rizzarsi a sedere e poi ad alzarsi in piedi.
Overland fece una risatina chioccia, sebbene, nel suo tono ci fosse una nota di disagio. «Aspettate solo che racconti di questa faccenda ai ragazzi della Lipton University».
«Sarà meglio di no», l'avvertì Laurette. Poi aggiunse: «Anche tu sei crollato e hai ammesso che quell'anello portava gramo. E quando uno scienziato diventa superstizioso...»
Tony la interruppe: «Non lo siamo stati tutti?»
Abbassando gli occhi, Masters disse: «Credo che avessimo delle ottime ragioni per esserlo». Le sue mani corsero inavvertitamente alla spalla.
Overland aggrottò la fronte e con le mani dietro la schiena si avvicinò a un portello vuoto. «E pensare al lavoro che ci abbiamo messo io, DeTosque, i fratelli Farr e Morrell. Non c'è nessuna ragione per rimettere insieme i cocci degli asteroidi e dimostrare che facevano parte tutti di un unico mondo. Ma nello stesso tempo non c'è nessuna prova, nessuna prova assoluta, che...» Si bloccò. Poi si volse di scatto verso Tony, mordendosi il labbro inferiore con aria pensierosa. I suoi occhi erano ridotti a due fessure.
«C'è una cosa che ha bisogno di una spiegazione e che probabilmente non verrà però mai spiegata. Peccato. Ricordo? Bah! Non è quella la risposta, tenente. Lei si era trovato in quella caverna, tenente e ha visto lo scheletro e chissà per quale ragione ha subito saputo che esso era esistito prima ancora della razza umana, ma che non era più vecchio di essa. Si tratta di qualcos'altro. Lei non ha raccolto un ricordo dal passato... proveniente da cento milioni di anni fa. E allora come la mettiamo?» Si allontanò scuotendo la testa, poi tornò bruscamente mentre Tony prendeva a parlare.
«Le dirò io perché», disse Tony con voce piatta.
La sua testa si mosse in su e in giù, lentamente, e i suoi occhi semichiusi indugiarono a guardare fuori dal portello verso la montagna dove giaceva la sua astronave di pattuglia. «Sì, le dirò io perché».
Laurette, Masters e Overland rimasero impressionati dal suo tono misterioso che risuonava in modo strano in quel silenzio.
Tony disse debolmente: «Io e Laurette siamo rimasti intrappolati vivi in fondo a quella caverna quando i due mondi si sono scontrati. Ma siamo sopravvissuti. Io non sapevo che lei era tornata, naturalmente; perché lei ha ripreso conoscenza più tardi, al momento giusto, direi!» Ebbe un leggero sogghigno all'indirizzo della ragazza, poi riprese. «Ho visto lo scheletro e per qualche ragione, forse perché ero troppo stordito, non ho compreso che non poteva essere quello di Laurette. Perché quando la forza di gravità è venuta a mancare, la tensione che teneva tutte le cose nel passato è cessata e tutto è tornato nel presente... solo leggermente prima del presente vero e proprio. Vi spiegherò poi».
Tirò un lungo respiro.
«Questo è difficile da descrivere. Mi trovavo sul retro della caverna e ho sentito qualcosa colpire il fianco della montagna.
«Be', era la mia astronave di pattuglia... con me dentro».
Il suo sguardo fece il giro dei presenti. Overland risucchiò rumorosamente l'aria.
«Attento adesso, ragazzo», tuonò in tono di avvertimento e con una espressione di allarme negli occhi.
Tony torse le labbra. «Si dà il caso che sia la verità. Dopo lo schianto della mia astronave sono uscito e pochi minuti dopo mi sono trovato all'imboccatura della caverna con uno scheletro sotto gli occhi. Per un minuto ho... ricordato. Cose frammentarie. Lo scheletro era... l'orrore.
«E perché no, del resto? Io mi trovavo anche sul retro della caverna, convinto che Laurette fosse morta e che lo scheletro appartenesse a lei. Il Tony Crow che si trovava all'imboccatura della caverna e quello che si trovava sul fondo della caverna avevano un rapporto di grado infinito. Erano la stessa persona in due posti diversi nello stesso tempo e anche il loro cervello era lo stesso».
Si interruppe.
Masters sussurrò qualcosa tra i denti serrati. «Due Tony Crow. Non poteva essere».
Tony si appoggiò alla parete. «C'erano due anelli nello stesso tempo. C'erano due scheletri, nello stesso tempo. Braker aveva al dito l'anello dello scheletro. Amos era ancora impacchettato in una scatola con sopra una targhetta natalizia. Ed entrambi si trovavano anche in un altro posto. Questo lo sapete bene tutti e lo ammettete. Be', c'erano anche due Tony Crow e se ci penso ancora per un attimo, sento che divent...»
«Basta, ragazzo!» il tono di Overland era tagliente. Poi con voce più gentile aggiunse: «Non c'è di che agitarsi. Il fatto stesso del viaggio nel tempo presuppone una duplicità di esistenza. La nostra astronave e tutto ciò che vi era contenuto era costituita di elettroni che esistevano da qualche altra parte nello stesso tempo... cento milioni di anni fa sul mondo che esisteva prima degli asteroidi. Non si può sfuggire a questo fatto. E non è necessario spaventarsi solo perché due Tony Crow si sono trovati a pochi metri di distanza l'uno dall'altro. Si ricordi che anche tutti noi siamo stati duplicati. L'astronave A è stata proiettata indietro nel tempo di circa un'ora prima che l'astronave B atterrasse qui dopo aver ricevuto l'impulso in avanti. Capisce?»
Laurette rabbrividì. «È chiaro, ma...» Fece un gesto confuso.
Gli occhi stanchi di Overland ebbero un lampo malizioso. «Comunque non corriamo più nessun rischio di incontrare i nostri doppi. Il passato è chiuso. Ed è questo che conta».
Né Laurette, né Tony dissero niente. Si stavano studiando a vicenda e sulle labbra di Laurette stava per formarsi un sorriso. Erle Masters si dimenò a disagio.
Overland continuò in tono cattedratico: «C'è stata una perdita di energia da qualche parte. Noi non siamo stati affatto risucchiati nel presente vero. Infatti noi saremmo dovuti tornare nel presente che avevamo lasciato aumentato delle tre settimane che avevamo trascorso nel passato. Laggiù era Natale e Laurette aveva perfettamente ragione quando ha aperto il mio pacco». Sogghignò. «Ma qui mancano più di tre settimane a Natale. Dev'esserci stata una perdita di energia pura e semplice. Se solo avessi una matit...»
Erle Masters lo interruppe con un colpo di tosse per annunciargli: «Sarà meglio che scendiamo nella sala di comando per calcolare la rotta, professore».
«Cosa?» Overland spalancò tanto d'occhi. Si guardò intorno e posò gli occhi sul tenente e la figlia. «Oh». Li studiò, poi si voltò e batté una mano sulle spalle a Masters. «Ha perfettamente ragione, figliolo. Muoviamoci!»
«Sono felice che non eri tu Amos», disse Tony a Laurette.
«Non avrei potuto assolutamente esserlo, tenente».
Lui sogghignò, colorandosi leggermente in viso.
Poi prese le mani di lei nelle sue e accostò la sua testa a quella di lei fin dove lo consentivano i caschi.
Disse: «Quando torneremo sulla Terra, intendo metterti un an...» Si interruppe mordendosi il labbro. Ricordi di un altro tempo, su un mondo preesistente agli asteroidi affollarono la sua mente a quel pensiero.
Laurette sobbalzò, pallida in viso. Involontariamente i suoi occhi corsero verso il portello aperto, al di là del quale c'erano una montagna, una caverna, uno scheletro e un anello.
Poi annuì debolmente, con lentezza. «È una buona idea», mormorò. Riuscì anche a sorridere. «Ma, per favore... non uno smeraldo».
Le parole di Guru
The Words of Guru
di C.M. Kornbluth
Stirring Science Stories, giugno
Un altro racconto breve ma splendido del Kombluth ancora giovanissimo. Comparve in «Stirring Science Stories», una rivista dalla breve ma eccitante vita curata dall'amico di Cyril, Donald A. Wollheim, la quale fu un'importante palestra per un buon numero di giovani fan di New York che sarebbero diventati scrittori. Molte delle storie nelle sue pagine erano frutto di collaborazioni, indipendentemente dal nome dell'autore, ma, questa, è tutta di Kombluth.
(Quando Don Wollheim curò «Stirring» e la rivista parallela «Cosmic», aveva a disposizione un budget che, se ricordo giusto, indicava zero dollari alla voce «scrittori». Perciò dovette appellarsi ai membri del Club dei Futuriani perché gli fornissero materiale gratuito, così da consentirgli di tirare avanti fino a quando le due riviste non avessero preso slancio e lui avesse potuto permettersi di pagare. Perfino io gli sottoposi un racconto intitolato The Secret Sense, uno dei miei lavori minori, credo. Cyril era di gran lunga il più attivo collaboratore, e il migliore. Non fu colpa di Don se la combinazione di un budget zero e della seconda guerra mondiale resero impossibile la continuazione, e, a proposito dei miei piagnucolii in un'altra introduzione, quanto al fatto che avevo soltanto vent'anni, per scusare le mie imperfezioni, questa storia comparve quando Cyril ne aveva soltanto diciotto. - I.A.)
Ieri, quando stavo per incontrare Guru nel bosco, un uomo mi fermò e mi chiese: «Bambino, che cosa fai qui fuori all'una del mattino? Tua madre sa dove ti trovi? Quanti anni hai, per andartene in giro così tardi?»
Lo guardai, vidi che aveva i capelli bianchi, e scoppiai a ridere. I vecchi non ci vedono mai bene: anzi, nessun uomo vede mai granché. A volte le giovani donne vedono qualcosa, ma gli uomini ci riescono assai di rado. «Ne compirò dodici al prossimo compleanno», dissi. E gli spiegai (tanto, in nessun caso avrei potuto consentirgli di vivere): «E sono fuori così tardi perché sto andando a trovare Guru».
«Guru?» mi chiese. «Chi è Guru? Uno straniero, immagino? Brutto affare mescolarsi con gli stranieri, giovanotto. Chi è Guru?»
Così gli dissi chi era Guru, e subito lui cominciò a biascicare di tascabili a poco prezzo e di sciocche favole; ma io dissi una delle parole che Guru mi aveva insegnato, e lui smise di parlare. Poiché era vecchio e le sue giunture erano rigide, non si accartocciò ma cadde in un sol pezzo, battendo la testa sulla pietra.
Anche se avrò soltanto dodici anni al mio prossimo compleanno, so molte cose che i vecchi non sanno. E ricordo cose che gli altri ragazzi non possono ricordare. Ricordo di essere nato dal buio e ricordo i rumori che la gente faceva intorno a me. Poi, quand'ebbi due mesi, cominciai a capire che quei rumori significavano cose... cose come quelle dentro la mia testa. Scoprii che anch'io potevo produrre quei rumori, e tutti ne furono molto sorpresi. «Parla!» dissero, una, due, tre, tante volte. «Ed è così giovane! Clara, che cosa ne pensi?» Clara era mia madre.
E Clara diceva: «Davvero non so. Non c'è mai stato nessun genio nella mia famiglia, e sono certa che non ce n'è mai stato nessuno in quella di Joe». Joe era mio padre.
Un giorno Clara mi presentò un uomo che non avevo mai visto prima, e mi disse che era un reporter... uno che scriveva cose sui giornali. Il reporter cercò di parlarmi come se fossi stato un bambino normale; io neppure gli risposi, ma continuai a fissarlo fino a quando lui abbassò gli occhi e se ne andò. Più tardi Clara mi rimproverò, e mi lesse un trafiletto nel giornale del reporter, un trafiletto che avrebbe voluto essere divertente... lui, il reporter, c'era scritto, mi aveva fatto delle domande assai complicate e io avevo risposto con balbettii infantili. Non era vero, naturalmente. Io non avevo detto niente al reporter, e lui non mi aveva fatto neppure una di quelle domande.
Io sentivo Clara che mi leggeva quel trafiletto, ma mentre ascoltavo, stavo osservando il lumacone che strisciava sulla parete. Quando Clara ebbe finito, le domandai: «Che cos'è quella cosa grigia?»
Lei guardò dove indicavo, ma non riuscì a vederla. «Che cosa grigia, Peter?» mi chiese. L'avevo convinta a chiamarmi col mio nome intero, Peter, invece di usare qualche sciocco diminutivo, come Petey. «Che cosa grigia?»
«È grande come la tua mano, Clara, ma morbida. Credo che non abbia affatto ossa. Sta strisciando all'insù, ma non vedo occhi né bocca sul lato rivolto verso l'alto. E non ha gambe».
Credo che fosse molto preoccupata, ma cercò ugualmente di assecondarmi trattandomi come un bambino, poiché allungò la mano verso il muro, come per cercare di scoprire dov'era. Io continuai a parlarle, facendole spostare la mano più a destra o più a sinistra. Alla fine, la sua mano passò attraverso il lumacone. E mi resi conto, allora, che lei non poteva vederlo, e neppure credeva che fosse lì. Allora smisi di parlarne, e soltanto qualche giorno più tardi le chiesi: «Come chiami una cosa che una persona può vedere e un'altra no?»
«Un'illusione, Peter», lei disse, «se è questo che intendi». Non risposi e lasciai che mi mettesse a letto come al solito, ma quando spense la luce e se ne andò, aspettai un po' e poi chiamai sommessamente: «Illusione! Illusione!» Subito Guru venne da me, per la prima volta. Fece un inchino — come avrebbe, poi, sempre fatto — e disse: «Stavo aspettando».
«Non sapevo che fosse questo il modo di chiamarti», risposi.
«Tutte le volte che mi vorrai, io sarò pronto. T'insegnerò, Peter... se vorrai imparare. Sai che cosa t'insegnerò?»
«Se m'insegnerai della cosa grigia sul muro», dissi, «ti ascolterò».
«Queste cose», fece lui. pensieroso, «sono in pochissimi a volerle imparare. E ci sono alcune cose che nessuno ha mai desiderato imparare. E altre cose che non t'insegnerò».
Io replicai: «Le cose che nessuno ha mai desiderato imparare, io le imparerò. E imparerò perfino le cose che tu non vuoi insegnare».
Lui sorrise beffardo: «È arrivato un maestro», disse, quasi ridendo. «Il maestro di Guru».
Fu così che seppi il suo nome. E quella notte lui m'insegnò una parola che avrebbe fatto piccole cose... come guastare il cibo, ad esempio.
Da quel giorno, fino a quando l'ho visto ieri notte, non è cambiato affatto, anche se adesso io sono alto quanto lui. La sua pelle è sempre asciutta e lustra, e il suo volto è ossuto, coronato da un'ispida chioma nera.
Una notte, quando avevo dieci anni, andai a letto quel tanto che mi bastò per far credere a Joe e a Clara che ero profondamente addormentato. Scivolai fuori e lasciai al mio posto qualcosa che compare quando si pronuncia una delle parole di Guru, uscii dalla finestra e scivolai giù lungo la grondaia. Era sempre stato facile, per me, scendere e salire a quel modo da quando avevo otto anni.
Incontrai Guru all'Inwood Hill Park. «Sei in ritardo», mi disse.
«Non troppo», risposi, «so che non è mai troppo tardi per una di queste cose».
«Come fai a saperlo?» mi chiese bruscamente. «Questa è la prima volta per te».
«E forse l'ultima», replicai. «Non mi piace l'idea. Se non avrò nient'altro da imparare dalla seconda, più della prima, non verrò nessun'altra volta».
«Tu non sai», lui disse, «tu non sai cosa voglia dire... le voci, i corpi intrisi d'unguento, le fiamme che guizzano, un rituale che davvero ti appaga! Non ne puoi avere alcuna idea fino a quando non vi avrai preso parte».
«Vedremo», mormorai. «E adesso, come andiamo?»
«Così». E m'insegnò la parola che mi serviva; ed entrambi la pronunciammo.
Il posto in cui ci trovammo era illuminato da luci rosse, e credo che le pareti fossero di roccia. Anche se, naturalmente, là non esisteva una vera visione e perciò le luci si limitavano a sembrare d'esser rosse, e quella non era una vera roccia.
Mentre ci stavamo avvicinando ai fuochi, una di loro ci fermò: «Chi c'è con te?» gli chiese, chiamando Guru con un altro nome. Io non sapevo che lui fosse anche la persona che portava quel nome, poiché era un nome molto potente.
Egli gettò una rapida occhiata verso di me, poi disse: «Questo è Peter, di cui ti ho spesso parlato».
Allora lei mi sorrise, protendendo le sue braccia coperte d'unguento: «Ah», bisbigliò, come i gatti quando, di notte, mi parlano. «Ah, questo è Peter. Verrai da me quando ti chiamerò, Peter? E tu mi chiamerai... nel buio... quando sarai solo?»
«Non devi far questo!» esclamò Guru, rabbioso, tagliandole la strada. «È molto giovane... potresti guastarlo per il suo lavoro».
Passammo oltre e lei stridette alle nostre spalle: «Guru e il suo discepolo... che coppia! Ragazzo, lui non è più reale di me... tu sei l'unica cosa reale che ci sia qui intorno!»
«Non ascoltarla», m'impose Guru. «Non riesce a controllarsi, farnetica. Sono tesi come corde quando arriva questo periodo».
Infine arrivammo accanto ai fuochi e ci sedemmo sulle rocce. Essi stavano uccidendo animali e uccelli, e facevano cose coi loro corpi. Il sangue veniva raccolto in un bacile di pietra che era fatto passare tra la folla. Colei che stava alla mia sinistra me lo porse. «Bevi», mi disse sorridendo, mostrandomi i suoi bei denti bianchi. Io inghiottii due sorsi e porsi il bacile a Guru.
Quando il bacile ebbe fatto il giro di tutti, ci spogliammo dei nostri indumenti. Alcuni, come Guru, non ne indossavano, ma altri sì. Quella alla mia sinistra mi si fece ancora più vicina e mi soffiò il suo alito pesante sul viso. Io mi scostai. «Dille di smettere, Guru», esclamai. «Questo non fa parte dell'affare, sai».
Guru le parlò bruscamente nella loro lingua e lei cambiò sedile, ringhiando.
Poi tutti ci mettemmo a cantilenare, battendo le mani e schiaffeggiandoci le cosce. Una di loro si alzò lentamente e cominciò ad aggirarsi a lenti passi intorno al fuoco, i suoi occhi roteavano come impazziti. Digrignava le mascelle e agitava le braccia intorno a sé con tanta violenza che potevo sentire lo schioccare delle giunture. Sempre trascinando i piedi sul suolo roccioso, piegò il corpo all'indietro fino a toccare i piedi col capo. I muscoli del ventre erano fasce che quasi le schizzavano fuori dalla pelle e l'olio le scorreva giù dal corpo e dalle gambe. Quando col palmo delle mani toccò il suolo, si afflosciò in un mucchio di membra che si contorcevano, e cominciò a emettere un gemito sottile sullo sfondo della cantilena e del ritmico schiaffeggiare delle mani. Un'altra di loro si alzò e fece lo stesso della prima, noi cantammo più forte, e ancora più forte per la terza. Poi, mentre continuavamo a battere le mani e le cosce, un'altra ancora prese su la terza, la distese sull'altare e la trafisse con un coltello di pietra. La luce delle fiamme luccicò sull'orlo scheggiato dell'ossidiana. Mentre il sangue ruscellava giù per la scanalatura incisa nella roccia dell'altare, cessammo il nostro salmodiare e i fuochi vennero spenti.
Ma noi potevamo ugualmente vedere ciò che stava accadendo, poiché, naturalmente, tutto questo non stava affatto accadendo — soltanto sembrava, proprio come tutte le cose e le persone che si trovavano lì sembravano soltanto ciò che erano. Soltanto io ero reale. Doveva essere per questo che mi desideravano a tal punto.
Quando l'ultimo dei fuochi si spense, Guru bisbigliò eccitato: «La Presenza!» Era profondamente emozionato.
Dalla pozza di sangue sgorgata dal corpo della terza danzatrice emerse la Presenza. Era il più alto fra tutti i presenti e quando parlò la sua voce echeggiò profonda, e quando diede ordini, essi furono prontamente obbediti.
«Scorra il sangue!» intimò, e noi incidemmo le carni coi coltelli di selce.
La Presenza sorrise e mostrò denti più grandi e aguzzi di quelli di chiunque altro.
«Fate acqua!» ordinò, e noi tutti ci sputammo l'un l'altro addosso.
La Presenza sbatté le ali e roteò gli occhi, che erano più grandi e rossi di quelli di chiunque altro.
«Vomitate fuoco!» gridò, e noi ci alitammo addosso fumo e fiamme. La Presenza batté i piedi sulle rocce e fiamme azzurre uscirono dalla sua bocca, ruggendo, ed erano più grandi e turbinose di quelle di chiunque altro.
Poi la Presenza nuovamente scomparve nella pozza di sangue e noi tornammo ad accendere i fuochi. Guru aveva lo sguardo fisso davanti a sé; lo tirai per il braccio e lui si voltò a guardarmi come se quella notte c'incontrassimo per la prima volta.
«A che stai pensando?» gli chiesi. «Ora andremo via?»
«Sì», lui disse, con voce grave, «ora ce ne andremo». E pronunciammo la parola che ci riportò qui.
Il primo uomo che uccisi fu fratello Paul, alla scuola dove andavo a imparare le cose che Guru non m'insegnava.
È stato meno di un anno fa, ma mi sembra che sia passato moltissimo tempo. Da allora, ho ucciso tante volte...
«Tu sei un ragazzo molto intelligente, Peter», mi disse il fratello.
«Grazie, fratello».
«Ma ci sono cose, di te, che non capisco. Normalmente lo chiederei ai tuoi genitori, ma... ho la sensazione che neppure loro capiscano. Tu eri un bambino prodigio, non è vero?»
«Sì, fratello».
«Non c'è niente d'insolito, in questo... questione di ghiandole, mi dicono. Tu sai che cosa sono le ghiandole?»
A questo punto mi allarmai sul serio. Ne avevo sentito parlare, ma non ero sicuro se erano gli uomini verdi, bassi e tozzi, tutti vestiti di metallo, o le creature dalle molte zampe con le quali parlavo nel bosco.
«Come hai fatto a scoprirlo?» gli chiesi.
«Ma Peter... sembri spaventato, ragazzo mio! Personalmente non ne so nulla, ma padre Frederick sì. Possiede interi libri sull'argomento, anche se a volte dubito che lui stesso ci creda».
«Non sono buoni libri, fratello», replicai, «dovrebbero esser bruciati».
«È un pensiero sconsiderato, figlio mio. Ma per tornare al tuo problema...»
Non potevo permettergli di andar oltre, sapendo ciò che lui sapeva di me. Pronunciai allora una delle parole che Guru mi aveva insegnato: sulle prime lui parve molto sorpreso, poi sembrò afferrarlo una profonda sofferenza. Crollò di traverso sulla sua scrivania; io gli tastai il polso per esserne certo, poiché non avevo mai usato quella parola prima di allora. Era morto.
Udii un rumore di passi pesanti, là fuori, e mi affrettai a rendermi invisibile. Il corpulento padre Frederick entrò nella stanza, e io fui quasi sul punto di uccidere anche lui, con la stessa parola, ma non lo feci: la cosa sarebbe parsa per lo meno strana. Aspettai, e scivolai fuori quando padre Frederick si chinò sul monaco morto. Credeva che dormisse.
Percorsi tutto il corridoio fino allo studio traboccante di libri del corpulento prete, in fretta li ammucchiai tutti al centro della stanza e li incendiai col mio alito. Poi scesi nel cortile della scuola, mi accertai che nessuno mi guardasse, e di nuovo mi resi invisibile. Fu molto facile.
Il giorno seguente uccisi un uomo che mi era passato accanto per strada.
Vicino a noi viveva una ragazza, Mary. Aveva quattordici anni, allora, e io la desideravo, allo stesso modo in cui quelle della Caverna Fuori del Tempo e dello Spazio avevano desiderato me.
Perciò, quando vidi Guru e lui ebbe fatto il suo inchino, gliene parlai. Mi guardò, pieno di stupore. «Stai crescendo, Peter», disse.
«Infatti, Guru. E verrà un tempo in cui le tue parole non saranno più abbastanza forti per me».
Lui rise. «Vieni, Peter», fece, «seguimi, se lo desideri. C'è qualcosa che dev'esser fatto...» Si leccò le sottili labbra purpuree e proseguì: «Ti avevo detto come sarebbe stato».
«Verrò», dissi, «insegnami la parola». Così, m'insegnò la parola e la pronunciammo insieme.
Il posto in cui ci trovammo non era affatto come gli altri posti dov'ero stato prima con Guru. Era un Non-Posto. Prima, sia pure in apparenza, c'erano sempre stati il passare del tempo e la materia, ma qui non c'era neppure questo. Qui, Guru e gli altri si erano spogliati della loro forma, ed erano ciò che veramente erano, e un Non-Posto era l'unico posto dove potevano farlo.
Non era come la Caverna, poiché la Caverna si era trovata fuori dal tempo e dallo spazio, ma questo era troppo perfino per quel luogo dov'eravamo adesso.
Era un Non-Posto.
Il racconto di ciò che accadde lì è qualcosa che non si può sopportare... in ogni caso, io fui introdotto alla presenza di certuni che non se ne andavano mai da lì. Tutti venivano a loro, così come essi esistevano. Essi non avevano colore o parvenza di colore o una qualunque parvenza di forma.
Lì, appresi che, alla fine, mi sarei unito a loro; che ero stato scelto, fra tutti quelli del mio pianeta, per dimorarvi senza rimanere per sempre nel Non-Posto.
Guru ed io ce ne andammo, dopo aver pronunciato la parola.
«E allora?» chiese Guru, fissandomi negli occhi.
«Sono disposto», dissi, «ma adesso insegnami quella parola...»
«Ah», egli sogghignò, «la ragazza».
«Sì», insistei, «la parola che significherà tanto per lei».
Sempre sogghignando, m'insegnò la parola.
Mary, che allora aveva quattordici anni, adesso ne ha quindici, ed è ciò che dicono: incurabilmente pazza.
La scorsa notte ho visto di nuovo Guru, e per l'ultima volta. Fece un inchino mentre mi avvicinavo a lui. «Peter», mi salutò calorosamente.
«Insegnami la parola», gli dissi.
«Non è troppo tardi, non ancora».
«Insegnami la parola».
«Puoi ritirarti... con quello che sai, puoi dominare questo mondo. Oro in quantità incalcolabili, gemme e sardonici, Peter! Velluti, arazzi, sete d'Oriente!»
«Insegnami la parola».
«Pensa, Peter, alla dimora che potresti costruire. Marmo bianco, e al centro di ogni lastra un rubino occhieggiante. Un portone d'oro massiccio dentro e fuori. E al centro dell'edificio potrebbe alzarsi una snella torre di avorio scolpito, svettante per miglia e miglia nel cielo turchino. Potresti contemplare le nuvole sotto i tuoi occhi».
«Insegnami la parola».
«La tua lingua potrebbe schiacciare chicchi d'uva dal sapore dell'argento liquido. Potresti ascoltare il canto del bulbul e quello dell'allodola che trilla come la stella del mattino fatta musica. Il profumo dello spiganardo potrebbe accarezzare per mille e mille anni le tue narici. Le tue mani potrebbero accarezzare le piume purpuree dei cigni dell'Himalaya, più morbide di una nuvola al tramonto».
«Insegnami la parola».
«Potresti avere donne dalla pelle nera come l'ebano o bianca come la neve. Dure come selce o morbide come una nuvola al teamonto».
«Insegnami la parola».
Guru sogghignò e pronunciò la parola.
Ora, non so se dirò quella parola, l'ultima che Guru mi ha insegnato, oggi o domani... o se lascerò, invece, passare un anno.
È una parola che farà esplodere questo pianeta come un candelotto di dinamite piantato in una mela marcia.
L'altalena
The Seesaw
di A.E. Van Vogt
Astounding Science Fiction, luglio
Questo è un buon racconto, uno dei migliori del 1941, ma è importante anche per ciò a cui ha portato. The Seesaw (L'altalena) divenne The Weapon Makers, che a sua volta condusse a The Weapon Shops of Isher. Lo slogan di questa storia, «Il Diritto di Acquistare Armi è il Diritto di Essere Liberi», trovò pochi dissenzienti in quell'anno 1941 lacerato dalla guerra. Van Vogt rimane uno dei professionisti che hanno avuto più influenza, pur essendo uno dei meno capiti.
(Non dovrei permettere che la mia opinione personale s'intrometta troppo in questa serie di antologie, poiché non devo tanto scegliere i miei racconti favoriti — anche se la maggior parte di essi lo sono — quanto quei racconti che hanno un significato storico nello sviluppo della science fiction. The Seesaw mi piacque enormemente, ma voltandomi, adesso, indietro, a riconsiderare la narrativa di Van Vogt, mi sembra che The Seesaw (L'altalena) sia stato praticamente l'ultimo suo racconto che suscitò in me un'autentica venerazione. Man mano gli anni della seconda guerra mondiale si dipanavano, trovai i suoi racconti sempre più difficili da seguire. Credo che ogni volta lui cercasse di superare se stesso con una storia dallo svolgimento sempre più complesso. Questo può essere pericoloso. E.E. Smith cadde in questa trappola, e nel caso delle Foundation Stories io mi fermai, non appena pensai che non vi fosse più alcun modo, per me, di evitar di cadere nella stessa trappola. - I.A.)
UN MAGO HA IPNOTIZZATO LA FOLLA?
11 giugno 1941 — La polizia e i giornalisti sono convinti che Middle City, tra poco, acquisterà gran fama come tappa di un maestro di magia, e sono pronti a tributargli una calorosa accoglienza se accetterà di spiegare esattamente com'è riuscito a ingannare centinaia di persone, facendo loro credere di aver visto uno strano edificio, una sorta di negozio d'armi.
È sembrato che l'edificio comparisse nello spazio precedentemente (e tuttora) occupato dalla Trattoria di zia Sally e dalla Sartoria Patterson. All'interno di questi due locali si trovavano soltanto lavoranti e impiegati, e nessuno ha notato niente d'inquietante. Una grande insegna luminosa ornava la facciata del negozio d'armi, miracolosamente evocato dal nulla; e appunto quest'insegna ha fornito la prima prova che l'intera scena non era altro che una magistrale illusione. Da qualunque angolo la si guardasse, sembrava sempre di averla di fronte. Essa diceva:
OTTIME ARMI
IL DIRITTO DI ACQUISTARE ARMI
È IL DIRITTO DI ESSERE LIBERI
La vetrina offriva un assortimento d'armi dalla forma piuttosto strana. Una scritta all'interno della vetrina diceva:
LE MIGLIORI ARMI A ENERGIA
DELL'UNIVERSO CONOSCIUTO
L'ispettore Clayton dell'Ufficio Investigativo ha tentato di entrare nel negozio, ma la porta sembrava chiusa a chiave; qualche istante più tardi C.J. (Chris) McAllister, reporter del Gazette-Bulletin, ha tentato a sua volta di superare la porta, l'ha trovata aperta ed è entrato.
L'ispettore Clayton ha allora tentato di seguirlo, ma ha scoperto che la porta era di nuovo chiusa. McAllister è uscito, dopo un po' di tempo, in preda a un profondo stordimento. Sembrava che tutti i ricordi di ciò che aveva fatto là dentro fossero stati cancellati dalla sua mente con un procedimento ipnotico, poiché non ha potuto dare alcuna risposta alle domande della polizia e degli spettatori.
Nel preciso istante della sua ricomparsa, lo strano edificio è svanito, fulmineamente così com'era comparso.
La polizia dichiara di non aver la minima idea sul modo in cui il maestro di magia abbia creato un'illusione così dettagliata per un periodo di tempo così lungo, davanti a una folla così numerosa. Tutti sono pronti ad esaltare il suo spettacolo, quando il mago sarà nuovamente fra noi.
Nota dell'autore: l'articolo di cui sopra non dice che la polizia, insoddisfatta di questa faccenda, ha poi tentato di mettersi in contatto con McAllister per un altro colloquio, ma è stata incapace di trovarlo. Sono passate alcune settimane, e McAllister non è più ricomparso. Qui, segue la storia di ciò che accadde a McAllister dal momento in cui trovò aperta la porta del negozio d'armi.
La porta del negozio d'armi aveva una strana caratteristica. Non fu tanto il fatto che si aprì così, al suo primo tocco, ma il modo in cui cedette quando la tirò a sé, come se fosse priva di peso. Per un attimo, McAllister ebbe l'impressione che la maniglia si fosse staccata, restandogli tra le mani.
S'immobilizzò, sorpreso. Alla fine, si fece strada nella sua mente il pensiero che l'ispettore Clayton, quando un minuto prima aveva cercato di entrare, aveva trovato la porta chiusa.
Il pensiero fu come un segnale. Alle sue spalle tuonò la voce dell'ispettore: «Ah, McAllister, ora me ne occuperò io».
Era buio all'interno del negozio, oltre la porta, troppo buio per vedere qualcosa, e per qualche ragione i suoi occhi non volevano adattarsi a quell'oscurità profonda...
Il puro istinto del reporter lo spinse ad avanzare nella tenebra che tutto avvolgeva, oltre la porta. Con la coda dell'occhio vide la mano dell'ispettore Clayton protendersi verso la maniglia della porta che le sue dita avevano lasciato un istante prima, e capì subito che, se quel poliziotto avesse potuto impedirlo, nessun reporter avrebbe mai messo piede in quell'edificio.
Aveva ancora la testa girata, gli occhi puntati più sull'ispettore che sull'oscurità davanti a lui; e cominciò a fare un altro passo avanti quando accadde quella cosa straordinaria.
La maniglia della porta non consentì che l'ispettore Clayton la toccasse. Si contorse in modo bizzarro, come se fosse animata da una qualche energia, ed era ancora lì, una forma strana, confusa. A sua volta la porta, con un movimento così rapido da risultare invisibile, toccò il calcagno di McAllister.
Un tocco leggero, quasi impercettibile; e prima che potesse pensare o reagire a ciò che era accaduto, lo slancio del suo movimento in avanti l'aveva portato dentro.
Quando s'immerse nel buio, fu afferrato da un'intensa, lacerante tensione nervosa. Poi, quando la porta ebbe finito di chiudersi, la breve, incredibile sofferenza si dileguò. Davanti a lui c'era un negozio vivamente illuminato; e dietro... cose incredibili!
Per McAllister, l'istante successivo fu un'impressione di vuoto assoluto. Lui era lì, il corpo goffamente contorto, solo vagamente conscio dell'interno del negozio, ma angosciosamente consapevole, prima che quel breve attimo fosse interrotto, di ciò che vedeva al di là dei pannelli trasparenti della porta che aveva appena valicato.
Non c'era più alcuna oscurità impenetrabile, nessun ispettore Clayton, nessuna folla mormorante di spettatori a bocca aperta, nessuna fila di squallidi negozi sull'altro lato della strada.
Non era neppure lontanamente la stessa strada. Non c'era nessuna strada. Si scorgeva, invece, uno splendido parco. E al di là del parco, scintillante sotto il sole di mezzogiorno, una città di minareti e di torri maestose...
Accanto a lui, la voce musicalmente intensa di una donna, disse: «Vuole un'arma?»
McAllister si voltò. Certo, avrebbe voluto continuare ancora a lungo a deliziarsi gli occhi con la visione di quella città. Il suo movimento era stato la reazione automatica alla voce. E poiché tutto era ancora come un sogno, l'immagine della città svanì quasi subito. La sua mente si concentrò sulla giovane donna che gli si era avvicinata dal lato posteriore del negozio.
Per dirla in breve, i suoi pensieri non volevano schiarirsi. Sapeva che avrebbe dovuto dir qualcosa, ma quest'idea si aggrovigliava con le prime impressioni dell'aspetto della ragazza. Era snella e ben formata; il suo volto ostentava un piacevole sorriso. Aveva occhi e capelli castani; questi ultimi, ondulati, erano pettinati con gusto. L'abito dal semplice taglio che indossava, e i sandali, parvero così normali a una prima occhiata che lui non vi prestò più che tanta attenzione.
Riuscì a dire: «Ciò che non riesco a capire è perché l'ispettore di polizia che ha cercato di seguirmi non sia riuscito a entrare. E dove si trova, adesso?»
Con sua sorpresa, il sorriso della ragazza si alterò lievemente, mentre essa diceva, in tono di scusa: «Sappiamo che la gente considera sciocco da parte nostra continuare a ostinarci così in questo isolamento».
La sua voce si fece più ferma: «Sappiamo anche quanto sia abile la propaganda che insiste sulla stupidità del nostro atteggiamento. Ma ugualmente non permettiamo che nessuno dei suoi uomini entri qui. Noi continuiamo a prendere molto sul serio i nostri principi».
Indugiò, come se si aspettasse che lui cominciasse a capire, ma McAllister ride, dalla crescente perplessità che traspariva dagli occhi della ragazza, che il suo viso doveva apparirle vacuo come i pensieri dietro ad esso.
I suoi uomini. La ragazza aveva pronunciato questa parola come se si stesse riferendo a qualche personaggio, e in diretta risposta al fatto che lui aveva nominato l'ispettore di polizia. Questo significava che i suoi uomini, chiunque fosse quella persona, erano poliziotti, ai quali non era consentito entrare in quel negozio d'armi. Così, la porta era ostile ad essi, e non li lasciava passare.
Una strana sensazione avvolse la mente di McAllister, accompagnando il senso di vuoto che cominciava ad affliggergli la bocca dello stomaco, la vaga percezione di profondità insondate, la prima, sbalorditiva convinzione che tutto non era come avrebbe dovuto essere.
La ragazza riprese a parlare, in tono più brusco: «Lei vuol dire che non sa nulla di tutto questo, ossia che l'associazione dei fabbricanti d'armi è esistita per generazioni in quest'epoca di energie devastatrici, come unica protezione dell'uomo comune contro la schiavitù? Il diritto di acquistare armi...»
Tornò a interrompersi, e lo scrutò con gli occhi ridotti a due sottili fessure. Poi: «A pensarci bene, c'è qualcosa d'illogico in lei. I suoi vestiti esotici... lei non viene dalle fattorie delle pianure settentrionali, per caso?»
Lui scrollò la testa, cupo, sempre più seccato per le proprie reazioni ad ogni istante che passava. Ma non poteva farci nulla. Sentiva una tensione crescere in lui, che si faceva sempre più insopportabile, come se in qualche punto del suo corpo una molla vitale venisse caricata fino al limite di rottura.
La giovane donna riprese, più rapidamente: «Ed a pensarci bene, è sorprendente che un poliziotto abbia cercato di aprire la porta e non ci sia stato nessun allarme».
La sua mano si mosse, e tra le dita balenò del metallo, splendente come l'acciaio alla luce abbacinante del sole. E non c'era il minimo accenno di scuse nella sua voce, quando disse: «Lei rimanga dove si trova, signore, fino a quando non avrò chiamato mio padre. Nel nostro tipo di affari, la nostra grande responsabilità ci vieta di correr rischi. Qui c'è qualcosa che non va, assolutamente!»
Curiosamente, fu a questo punto che il cervello di McAllister riprese a funzionare chiaramente. E il primo pensiero che gli venne fu affine a quello della ragazza. Come mai quel negozio d'armi era comparso in una strada del 1941? E in che modo lui era capitato in quel mondo fantastico?
C'era davvero qualcosa di molto sbagliato!
Fu la pistola ad attirare la sua attenzione. Era un oggetto minuscolo, aveva la forma di una pistola, ma tre piccoli cubi sporgevano in semicerchio dalla sommità della camera di sparo leggermente bulbosa.
E mentre la fissava, sentì un tremito salirgli su dall'intimo: poiché quel piccolo oggetto maligno, che scintillava fra quelle dita abbronzate, era vero almeno quanto lei.
«Santo cielo!» bisbigliò McAllister, «che razza di diabolica pistola è mai quella? Abbassi quell'affare e cerchiamo di scoprire che cosa significa tutta questa faccenda».
Lei parve non ascoltarlo; all'improvviso lui si accorse che il suo sguardo era balzato a un punto della parete alla sua sinistra. Si girò di scatto... appena in tempo per veder lampeggiare sette minuscole luci bianche.
Che strane luci! Per un attimo fu affascinato dal gioco di luci e ombre, dal crescere e decrescere del loro splendore da un minuscolo globo al successivo, una successione d'infinitesimali increspature, incredibili reazioni istantanee, delicatamente graduate, di un barometro supersensibile.
Le luci infine si stabilizzarono; il suo sguardo tornò ad appuntarsi sulla ragazza. Con sua viva sorpresa vide che stava riponendo l'arma. Lei doveva aver colto la sua espressione, poiché disse in tono gelido:
«Va tutto bene. Ora le automatiche sono puntate su di lei. Se ci siamo sbagliati sul suo conto, saremo lieti di scusarci. Nel frattempo, se ancora le interessa acquistare un'arma, sarò felice di offrirle delle dimostrazioni».
Così, le automatiche erano puntate su di lui, rifletté ironicamente. Non provò alcun sollievo a quell'informazione. Qualunque cosa fossero le automatiche, non avrebbero lavorato a suo favore. E il fatto che quella giovane donna potesse metter via la sua arma malgrado i suoi sospetti, diceva anche troppo sull'efficienza di quel nuovo tipo di cani da guardia.
Non c'era assolutamente nulla che lui potesse fare, se non recitare fino in fondo quella farsa sempre più truce e inesplicabile. O lui era pazzo, oppure non si trovava più sulla Terra, per lo meno non sulla Terra del 1941... il che era del tutto privo di senso.
Doveva uscire da quel posto, naturalmente, ma intanto quella ragazza si stava comportando in base all'ovvia supposizione che, se un uomo entrava in un negozio di armi, era perché, in circostanze normali, voleva acquistare un'arma.
Fu colpito improvvisamente dal fatto che, nella ridda dei suoi pensieri, uno emergeva più deciso degli altri: lui voleva vedere una di quelle strane armi. La stessa forma di quei congegni implicava cose incredibili. Disse, ad alta voce: «Sì, certo, mi faccia vedere».
Un altro pensiero gli attraversò la mente e aggiunse: «Non ho alcun dubbio che suo padre sia sul retro del negozio, intento a studiarmi».
La giovane donna non fece alcun gesto per guidarlo attraverso il negozio. I suoi occhi erano buie pozze di perplessità che lo fissavano intensi:
«Lei forse non se ne è reso conto», disse lei, alla fine, «ma ha già sconvolto l'intera nostra organizzazione. Le luci delle automatiche avrebbero dovuto accendersi nell'istante in cui lei è entrato, e non aspettare che mio padre pigiasse sui pulsanti, quando l'ho chiamato. E invece è stato così... è assurdo, innaturale. Eppure...», le rughe sulla sua fronte si accentuarono, «... se lei fosse uno di loro, come avrebbe potuto passare da quella porta? È possibile che i suoi scienziati abbiano scoperto esseri umani che non influenzano le energie sensitive? E che lei sia uno dei prescelti, inviato come esperimento, per scoprire se era o no possibile forzare l'accesso? Ma neppure questo è logico.
«Se essi avessero avuto anche una sola, vaga speranza di successo, non avrebbero gettato via la possibilità di una sorpresa schiacciante. Lei sarebbe stato, allora, la punta di diamante di un attacco su vasta scala. Quella donna è spietata, brillante, e in tutta la sua vita ha ambito soltanto ad avere un potere assoluto sui poveri sciocchi del suo stampo, i quali bramano soltanto adorare la sua stupefacente bellezza e lo splendore della sua corte imperiale».
La giovane donna tirò il fiato, con un sorriso semispento: «Eccomi di nuovo a tenere un comizio... Ma, almeno, lei avrà capito che vi sono delle ragioni ben precise di esser così prudenti nei suoi confronti».
C'era una poltrona in un angolo; McAllister si avviò verso di essa, la sua mente era più calma, e lucida.
«Senta», cominciò, «io non ho la più pallida idea di che cosa lei sta dicendo. E neppure di come ho fatto a trovarmi in questo negozio. Sono d'accordo con lei che l'intera faccenda richieda una spiegazione, ma io l'intendo in maniera del tutto diversa dalla sua. In effetti...»
La sua voce si affievolì e si spense. Si era già per metà seduto, ma invece di lasciarsi sprofondare nella poltrona, tornò a raddrizzarsi lentamente, come un uomo vecchio, molto vecchio. I suoi occhi fissavano una scritta luminosa sopra una teca di vetro contenente alcune armi, dietro la ragazza. Disse, con voce rauca: «Quello... è un calendario».
Lei seguì il suo sguardo, perplessa: «Sì, è il tre giugno. Che cosa c'è che non va?»
«Non chiedevo il giorno. Voglio dire...» riuscì a controllarsi con uno sforzo tremendo. «Voglio dire, quelle cifre là sopra... Che anno è questo?»
La ragazza parve sorpresa. Infine esclamò: «Perché mi guarda così? Non c'è niente di sbagliato. Questo è l'anno ottantaquattro del quattromilasettecentesimo della Casa Imperiale di Isher. È esatto».
Non provò alcuna sensazione, alcuna vera sensazione. Si sedette con lentezza deliberata, conscio della meraviglia che s'impadroniva di lui: come avrebbe dovuto sentirsi?
Neppure la sorpresa gli venne in aiuto. Invece, l'intero schema degli avvenimenti cominciò a disporsi secondo una sua logica, sia pure distorta.
La facciata di quell'edificio sovrapposta a due negozi del 1941; il modo in cui si erano comportate la maniglia e la porta; la grande insegna esterna con la sua strana associazione fra la libertà e il diritto di acquistare le armi; l'esposizione di armi nella vetrina, delle migliori armi ad energia dell'universo conosciuto!
Si rese conto che erano passati parecchi minuti, mentre lui se ne stava lì a rimuginare i suoi pensieri. E ora la ragazza stava parlando animatamente con un uomo alto, dai capelli grigi, in piedi accanto alla porta dalla quale lei, prima, era uscita.
C'era una strana tensione nel modo in cui stavano parlando. Le loro parole, dette sottovoce, creavano una risonanza confusa nelle sue orecchie, un effetto conturbante del quale lui non riuscì ad analizzare del tutto il significato fino a quando la ragazza non si voltò, chiedendogli con urgenza: «Signor McAllister, mio padre vuol sapere da quale anno lei viene!»
Per un attimo, il tono urgente offuscò il significato della frase. Poi: «Ehi!» esclamò McAllister. «Intendete dire che siete voi i responsabili di... E come diavolo fate a sapere il mio nome?»
Il vecchio scosse la testa: «No, non siamo noi i responsabili». Parlò più rapidamente, ma senza perder nulla della sua gravità. «Non c'è tempo per le spiegazioni. Ciò che è accaduto è quello che noi costruttori d'armi abbiamo temuto per generazioni: presto o tardi sarebbe giunto qualcuno che ambiva al potere illimitato, il quale, per conseguire la tirannia, avrebbe tentato prima, inevitabilmente, di distruggerci.
«La sua presenza, qui, è una chiara manifestazione dell'energia-forza che ella ci ha scagliato contro, qualcosa di così nuovo che noi neppure sospettavamo si stesse preparando ai nostri danni. Ma adesso... non ho tempo da perdere. Cerca di ottenere tutte le informazioni che puoi, Lystra, e avvertilo del pericolo che lo minaccia personalmente».
Il vecchio si girò. La porta si chiuse silenziosamente dietro la sua alta figura.
McAllister chiese: «Che cosa intendete dire con... pericolo personale?»
Si avvide del disagio in quegli occhi castani, quando si posarono su di lui.
«È difficile spiegarlo», cominciò la ragazza con voce inquieta. «Per prima cosa venga alla finestra, cercherò di chiarirle ogni cosa. Suppongo che tutto questo sia molto disorientante per lei».
McAllister tirò un profondo sospiro: «Adesso cominciamo a ragionare».
La sua angoscia si era dileguata. Quel vecchio sembrava conoscere il significato di quanto era accaduto; ciò significava che non avrebbero dovuto esserci, per lui, difficoltà a tornare a casa. In quanto a tutti quei pericoli per l'associazione dei fabbricanti d'armi, quelli erano affari loro, non suoi. Intanto...
Fece un passo avanti, avvicinandosi alla ragazza. Con suo vivo stupore, lei si ritrasse di scatto, come se lui l'avesse colpita.
Mentre la fissava senza capire, la ragazza alzò gli occhi e scoppiò in una risatina nervosa. Poi mormorò: «Non creda che mi stia comportando da sciocca. Non si offenda... ma se ci tiene alla vita, non tocchi nessun corpo umano».
Fu come se un'ondata di gelo l'avesse investito. Sgomento, vide che l'espressione di disagio sul volto della ragazza si era trasformata in genuina... paura!
Provò una viva irritazione. Si dominò con uno sforzo.
«Ora, mi ascolti», cominciò, «voglio mettere bene in chiaro le cose. Noi possiamo parlarci, qui, senza pericolo, sempre che io non la tocchi o non mi avvicini troppo a lei. Giusto?»
La ragazza annuì: «Il pavimento, le pareti, la mobilia, in realtà l'intero negozio, sono fatti di materiale non-conduttivo».
McAllister provò all'improvviso la sensazione di trovarsi in equilibrio su una corda tesa sopra un abisso senza fondo. Soprattutto per il modo in cui quella ragazza l'avvertiva senza preavviso di un pericolo senza precisare quale fosse. McAllister costrinse la sua mente alla calma. «Cominciamo dall'inizio», disse. «Come avete fatto a sapere il mio nome, lei e suo padre, e che io non ero...» esitò un attimo, per la stranezza della frase, poi proseguì: «... che non ero di questo tempo?»
«Mio padre l'ha esaminata coi raggi X», spiegò la ragazza, la voce tesa quanto il suo corpo, «ha esaminato coi raggi X il contenuto delle sue tasche. E così ha scoperto la verità. Vede, i raggi X hanno reagito con l'energia di cui lei è carico. È questo, appunto; ed è il motivo per cui le automatiche non volevano puntarsi su di lei, e...»
«Un momento!» Esclamò McAllister. Il suo cervello vorticava come impazzito. «Energia... carico?»
La ragazza lo fissò: «Non capisce?» fece, in un rantolo. «Lei ha attraversato cinquemila anni di tempo, e fra tutte le energie dell'universo, questa è la più potente. Lei è carico di trilioni e trilioni di unità di energia-tempo. Se lei dovesse uscire da questo negozio, farebbe saltare in aria l'intera città di Isher, per un raggio di almeno cinquanta miglia.
«Lei...» disse ancora la ragazza, mentre la sua voce tremula acquistava una sfumatura isterica, «... lei potrebbe perfino distruggere la Terra!»
Lui, prima, non si era accorto dello specchio, e questo era strano poiché era assai grande, alto due metri e mezzo, e proprio davanti a lui, sulla parete dove un attimo prima — avrebbe potuto giurarlo — c'era stato solido metallo.
«Si guardi», gli stava dicendo la ragazza in tono persuasivo, «non c'è niente che calmi di più della propria immagine. In effetti, il suo corpo sta reagendo benissimo allo shock mentale».
Era proprio così! Egli fisso con uno stupore crescente la propria immagine. Il volto magro che lo fissava dallo specchio era pallidissimo, ma il corpo non tremava, come invece il turbinio angoscioso della sua mente gli aveva fatto pensare.
Fu nuovamente conscio della presenza della ragazza. Era accanto alla parete, il dito appoggiato a uno dei numerosi interruttori. Improvvisamente si sentì meglio.
«Grazie», annuì, calmo, «ne avevo senz'altro bisogno».
Lei gli sorrise in modo incoraggiante, e lui, adesso, si stupì di una simile, contraddittoria personalità. Pochi minuti prima quella ragazza si era mostrata del tutto incapace di giungere al punto, di spiegargli chiaramente qual era il pericolo; ora, al contrario, il suo intervento con lo specchio dimostrava un'acuta comprensione della psicologia umana. Le disse: «Ora il problema, dal vostro punto di vista, è di aggirare questa... questa Isher... e di farmi tornare nel 1941 prima che io faccia scoppiare la Terra di... di quest'anno, qualunque esso sia».
La ragazza annuì. «Papà dice che lei può essere rispedito indietro, ma — in quanto al resto — guardi!»
Non ebbe tempo di provar sollievo, alla notizia che poteva essere rimandato al suo tempo. Lei premette un altro pulsante. Istantaneamente lo specchio fu come riassorbito dalla parete metallica. Un altro interruttore scattò, e la parete svanì... letteralmente svanì. Davanti a lui si stendeva un parco simile a quello che aveva già visto oltre la porta d'ingresso, ovviamente un'estensione dello stesso giardino, con alberi e fiori e una profusione d'erba che risplendeva di un verde intenso alla luce del sole.
E c'era nuovamente la città, più vicina su quel lato, ma non così bella... anzi, inesprimibilmente triste.
Un unico, immenso edificio, tanto alto quant'era lungo, scuro contro la radiosità del cielo, dominava l'intero orizzonte. Sorgeva a un buon quarto di miglio di distanza, con le sue incredibili dimensioni. Nessuna persona vivente era visibile accanto a quell'edificio, e neppure nel parco circostante. Dovunque c'erano i segni dell'attività dell'uomo... ma non c'erano uomini, non un solo movimento. Perfino gli alberi si ergevano immobili in quella giornata piena di sole ma stranamente priva del più piccolo alito di vento.
«Guardi!» tornò a dire la ragazza, con voce più sommessa.
Questa volta non si udì nessun clic. La ragazza eseguì una lieve regolazione ruotando una manopola; e all'improvviso la visione non fu più così chiara. Non che il sole avesse attenuato il suo splendore, o che fosse comparsa una lastra di vetro là dove poco prima non c'era stato nulla.
Continuava a non esserci nulla, almeno in apparenza, fra essi e quello splendido parco. Ma...
Il parco non era più deserto!
Dozzine di uomini e di macchine brulicavano là fuori. McAllister fissò la scena, sbalordito; poi. gradualmente, la scena acquistò concretezza e realtà e l'oscura minaccia rappresentata da quegli uomini gli penetrò nel cervello, e il suo stupore si tramutò in sgomento.
«Ma quegli uomini sono soldati!» esclamò infine. «E quelle macchine sono...»
«... armi a energia!» la ragazza confermò. «È sempre stato il loro problema: come far arrivare le loro armi abbastanza vicine ai nostri negozi per distruggerci. Non è che le loro armi non siano potenti anche a grande distanza. Anche i fucili che noi vendiamo possono uccidere una vita non protetta a una distanza di molte miglia. Ma i nostri negozi sono così massicciamente difesi che, per distruggerci, devono avvicinare le loro armi al punto da spararci quasi a bruciapelo.
«In passato non avevano mai potuto farlo, poiché il parco circostante è nostro, e il nostro sistema di allarme era perfetto... fino ad oggi. La nuova energia che stanno usando non attiva nessuno dei nostri sistemi difensivi e — cosa infinitamente peggiore — offre ad essi uno scudo perfetto contro le nostre stesse armi. Naturalmente, l'invisibilità è conosciuta da tempo; ma se lei non fosse venuto, noi saremmo stati distrutti senza neppure renderci conto di ciò che accadeva».
«Ma», replicò seccamente McAllister, «che cosa avete intenzione di fare? Loro sono ancora là fuori, e si stanno dando da fare con...»
I suoi occhi castani tornarono a volgersi impulsivamente su di lui, fiammeggianti: «Dove crede che sia mio padre?» gli chiese. «Ha avvertito tutti gli associati, e ogni negoziante d'armi ha scoperto adesso che armi invisibili simili a queste vengono piazzate fuori del suo negozio da uomini invisibili. Ogni membro dell'associazione sta ora freneticamente lavorando alla ricerca di una soluzione. Ma non l'hanno ancora trovata».
E concluse con calma: «Ho pensato che fosse meglio avvertirla».
McAllister si schiarì la gola, aprì la bocca per parlare... ma tornò a chiuderla quando si accorse di non aver parole per esprimersi. Continuò a guardare, affascinato, quei soldati che collegavano dei cavi, prima anch'essi invisibili, che si stendevano fino all'immane edificio sullo sfondo: cavi del diametro di una trentina di centimetri che la dicevano lunga sulla potenza titanica destinata ad essere scatenata contro il minuscolo negozio d'armi.
Non c'era, infatti, niente da dire. La micidiale realtà, là fuori, toglieva significato a qualunque possibile frase o dichiarazione. Di tutte le persone che si trovavano lì, lui era la più inutile, e la sua opinione la più insignificante.
Stranamente, si avvide di aver espresso i propri pensieri a voce alta, e se ne rese conto quando udì all'improvviso, accanto a sé, la voce ormai nota del padre della ragazza. Il vecchio gli disse: «Lei si sbaglia, e di molto, McAllister. Fra tutte le persone che abbiamo qui, lei è la più preziosa. Grazie a lei, abbiamo scoperto che gli Isher stavano scatenando un attacco contro di noi. Inoltre, i nostri nemici non sanno della sua esistenza, perciò non si sono ancora resi conto dell'effetto prodotto dalla nuova energia intercettatrice che stanno usando.
«Di conseguenza, lei costituisce il fattore sconosciuto... l'unica nostra speranza, poiché il tempo che ci rimane è incredibilmente breve. A meno che non possiamo fare un uso immediato dell'entità sconosciuta che lei rappresenta, tutto è perduto!»
L'uomo sembrava ancora più vecchio, pensò McAllister; c'erano nuove rughe di tensione sul suo volto magro e giallognolo, quando si rivolse a sua figlia; e la sua voce, quando riprese a parlare, suonò aspra: «Lystra, il numero sette!»
Mentre le dita della ragazza azionavano il settimo interruttore, suo padre spiegò rapidamente a McAllister: «Il supremo consiglio dell'associazione sta tenendo una seduta d'emergenza. Dobbiamo scegliere il metodo migliore per affrontare il problema, e concentrarsi, sia individualmente, sia tutti insieme, su quel metodo. Collegamenti regionali sono già in corso, ma soltanto un'idea davvero importante finora è emersa, e... ah, signori!»
Aveva parlato rivolgendosi a qualcuno dietro le spalle di McAllister, il quale si girò di scatto, per immobilizzarsi subito, come paralizzato.
Degli uomini stavano uscendo dalla parete compatta, con movimenti agili e fluidi come se stessero valicando una porta aperta. Uno, due, tre... dodici. Erano uomini dalla faccia cupa, tutti, salvo uno che lanciò un'occhiata a McAllister, fece per oltrepassarlo, ma poi si arrestò con un sorriso mezzo divertito.
«Non sia così stupefatto. Come pensa, altrimenti, che avremmo potuto sopravvivere per tutti questi anni se non fossimo stati in grado di trasmettere oggetti materiali attraverso lo spazio? La polizia di Isher è sempre stata fin troppo ansiosa di bloccare le nostre fonti di rifornimento. A proposito, il mio nome è Cadron... Peter Cadron!»
McAllister fece un cenno affermativo col capo. Non era più impressionato dalle nuove macchine. Qui c'erano infiniti prodotti dell'età meccanica; scienza e tecnica erano così prodigiosamente progredite che gli uomini non facevano praticamente nulla che non implicasse l'uso di una macchina. Si rese conto che un uomo dal volto quadrato accanto a lui stava per parlare. Costui cominciò:
«Ci siamo radunati qui, perché è ovvio che la fonte della nuova energia è il grande edificio di fronte a questo negozio...»
Accennò alla parete dove poco prima vi era stato uno specchio, e poi la finestra attraverso la quale McAllister aveva visto quella mostruosa struttura.
L'uomo continuò: «Sapevamo, fin da quando quell'edificio fu completato, cinque anni fa, che si trattava d'un immenso apparato energetico puntato contro di noi. Adesso, questa nuova energia si è rovesciata fuori da esso per sommergere il mondo, un'energia tremendamente forte, capace di spezzare perfino l'intima struttura del tempo, ma fortunatamente soltanto fino a questo negozio d'armi, il più vicino. Sembra che la sua potenza s'indebolisca, se deve attraversare una grande distanza. Essa...»
«Senti, Dresley!» l'interruppe bruscamente un piccolo uomo smilzo. «A che serve tutto questo preambolo? Tu hai esaminato i vari piani proposti dai gruppi regionali. Ne hai trovato uno efficace, o no?»
Dresley esitò. Con viva sorpresa di McAllister, i suoi occhi si fissarono dubbiosi su di lui, il suo volto massiccio si animò per un attimo, poi tornò a indurirsi.
«Sì, c'è un modo, ma è legato alla possibilità di costringere questo nostro amico del passato a correre un grave rischio. Voi tutti sapete a che cosa mi riferisco. Ma ci consentirebbe di guadagnare il tempo di cui abbiamo così disperatamente bisogno».
«Ehi!» esclamò McAllister, e restò lì, sbalordito, sotto gli occhi di tutti.
I secondi passarono, lenti. E McAllister si rese conto, sbigottito, di aver nuovamente un gran bisogno dello specchio... per provare a se stesso che il suo corpo presentava un aspetto all'altezza della gravità del momento. Qualcosa, insomma, che l'aiutasse a calmarsi.
Il suo sguardo guizzò da un volto all'altro di quegli uomini. I fabbricanti di armi, nel modo in cui erano seduti, o in piedi, o appoggiati alle teche scintillanti che contenevano le armi, formavano una sorta di schema, sia pure confuso... e sembravano esser meno di quanti ne aveva contati prima. Uno, due... dieci, compresa la ragazza. Avrebbe giurato che, prima, fossero dodici.
I suoi occhi guizzarono di lato, appena in tempo per vedere la porta sul fondo del negozio che si stava chiudendo. Ovviamente, quattro degli uomini erano andati al laboratorio, o qualunque cosa si trovasse oltre quella porta. Avendo chiarito il problema, si dimenticò di loro.
Tuttavia, si sentiva turbato. Per qualche istante, i suoi occhi furono attratti dalle meraviglie puramente tecniche di quel negozio, qui, in un mondo futuro così intricato... e quel negozio era già, per conto suo, una macchina complicata, e...
Scoprì che si stava accendendo una sigaretta; e si rese improvvisamente conto che era proprio di questo che aveva più bisogno. La prima boccata bastò a procurargli un piacevole formicolio ai nervi. La sua mente si fece più calma.
Disse, infine: «Non riesco a capire come uno qualunque di voi possa pensare, in qualche modo, a costringermi. Mi avete detto che io sono tremendamente carico d'energia. Potrei sbagliarmi, ma se qualcuno di voi dovesse tentare di scagliarmi indietro, giù nell'abisso del tempo, o anche soltanto di toccarmi, l'energia che è in me produrrebbe effetti devastanti...»
«Lei ha dannatamente ragione!» interloquì un giovanotto, il quale subito dopo sbraitò a Dresley: «Come diavolo hai fatto a commettere un simile errore psicologico? Tu sai che McAllister dovrà fare come vogliamo noi, per salvare se stesso, e dovrà farlo in fretta!»
Dresley grugnì sotto quel violento attacco. «Per l'inferno», replicò, «la verità è che non abbiamo tempo da perdere, e ho pensato che non ci fosse tempo per spiegare, e ho creduto che lui potesse spaventarsi fin troppo facilmente... Ma vedo che abbiamo a che fare con un uomo intelligente».
Gli occhi di McAllister si socchiusero, fissando il gruppo. Qualcosa gli suonava falso. Stavano parlando troppo, sprecando proprio quel tempo di cui avrebbero avuto un folle bisogno, come se stessero volontariamente segnando il passo in attesa che accadesse qualcosa.
Esclamò bruscamente: «E non cercate di rendermi più malleabile proclamando la mia intelligenza! Voi state sudando freddo. Sparereste a vostra nonna, sareste pronti a tirarmi dalla vostra con qualunque bugia, perché il mondo che voi credete giusto è in gioco. Che cos'è questo piano di cui volevate obbligarmi a far parte?»
Fu il giovanotto a rispondere: «Le verranno dati degli indumenti isolanti, e sarà rispedito al suo tempo...»
Esitò, e McAllister disse: «Fin qui, mi sembra giusto... dov'è il tranello?»
«Non c'è nessun tranello!»
McAllister lo fissò: «Ora, sentitemi bene», cominciò, «non cercate di darmi a bere questo. Se sarà così semplice, come diavolo potrò aiutarvi contro l'energia di Isher?»
Il giovanotto fissò bieco Dresley: «Vedi?» gli disse, «col tuo discorso sulla coercizione l'hai reso sospettoso».
Si piazzò davanti a McAllister: «Ciò che abbiamo in mente è l'applicazione di una sorta di leva a energia e del principio del fulcro. Lei sarà il "peso" all'estremità del braccio lungo di una leva a energia, e solleverà il "peso" assai più grande all'estremità corta. Lei tornerà indietro nel tempo di cinquemila anni; la macchina in quel grande edificio, alla quale il suo corpo è sincronizzato, e che ha causato tutti questi guai, si sposterà in avanti nel tempo di circa due settimane».
«In questo modo», intervenne un altro di quegli uomini prima che McAllister potesse replicare, «noi avremo il tempo di trovare un agente contrastante. Dev'esserci senz'altro una soluzione, altrimenti i nostri nemici non avrebbero agito con tanta segretezza. Dunque, che cosa ne pensa?»
McAllister si avviò lentamente verso la poltrona sulla quale si era seduto poco prima. La sua mente stava lavorando a furiosa velocità, ma lui si rendeva conto, cupamente, di non possedere neppure una minima frazione delle conoscenze che gli sarebbero state necessarie per salvaguardare i suoi interessi.
Disse, scandendo le parole: «Da come la vedo io, ciò dovrebbe funzionare un po' come il manico d'una pompa per l'acqua. Il principio della leva... l'antica idea che, se avete una leva con un braccio lungo a sufficienza, e un fulcro adatto, potreste smuovere la Terra dalla sua orbita».
«Esattamente!» era stato Dresley, quello dal volto quadrato, a parlare. «Soltanto che questa leva funzionerà nel tempo. Lei si sposta di cinquemila anni, l'edificio si sposta di poche sett...»
La sua voce si spense e tutto il suo entusiasmo lo lasciò, quando colse l'espressione sul volto di McAllister.
«Sentite!» fece McAllister, «non c'è niente di più penoso di un branco di uomini onesti impegnati nel loro primo atto di disonestà. Voi siete uomini forti, del tipo intellettuale, i quali hanno passato l'intera vita a difendere un concetto idealistico. Vi siete sempre detti che, se fosse stato necessario, non avreste esitato a compiere drastici sacrifici. Ma, ora, non riuscireste a ingannare nessuno. Dov'è la trappola?»
Col più vivo stupore, si avvide che gli stavano porgendo, con estrema urgenza, l'abito isolante. Non aveva visto gli uomini emergere dalla stanza sul retro, e si rese conto, sbigottito, che essi erano andati a prendere quegli indumenti prima ancora di poter sapere se lui avrebbe accettato di usarli.
McAllister fissò torvo Peter Cadron, il quale gli tendeva quel fagotto grigio, opaco, floscio. Si sentì afferrare da una nuova, violenta fiammata di rabbia, che quasi lo soffocò; ma prima che potesse esprimerla a parole, Cadron gli disse, con voce vibrante: «Se l'infili e vada! È questione di minuti, amico! Quando quelle armi là fuori cominceranno a scaricare energia, lei non sarà più in grado di discutere della nostra onestà».
Malgrado ciò, egli esitava ancora; la stanza gli parve insopportabilmente calda, e lui provava una nausea crescente... a causa di quella micidiale certezza. Il sudore gli colava giù per le guance, provocandogli un intenso prurito. Si guardò freneticamente intorno e i suoi occhi finirono per appuntarsi sulla ragazza, che se ne stava immobile, l'aspetto abbattuto, sul lato opposto, accanto alla porta d'ingresso.
Si diresse verso di lei. Ma il suo sguardo, o il suo aspetto dovevano essere incredibilmente spaventosi, perché lei si ritrasse istintivamente, diventando bianca come un lenzuolo.
«Senta!» lui le disse, «sono dentro a questa faccenda fino al collo. Qual è il rischio che corro? Mi è parso di capire che avrei qualche possibilità di scamparla. Mi dica, dov'è la trappola?»
La ragazza si era fatta grigia in volto, l'intero suo aspetto era grigio smorto, quasi identico alla tuta che Peter Cadron reggeva. «È l'attrito», mormorò lei, alla fine, «lei potrebbe non tornare indietro fino al 1941. Vede, lei sarà una specie di "peso", e...»
McAllister si girò di scatto, volgendole le spalle. Infilò quell'abito morbido, quasi inconsistente, stirandolo quasi fosse una tuta, appunto, sopra i suoi indumenti ben stirati. «Si chiude sopra la testa, non è vero?» chiese.
«Sì!» Era stato il padre di Lystra a rispondere. «Non appena avrà tirato quella lampo, l'abito diverrà completamente invisibile. Agli estranei sembrerà che lei indossi i suoi normali vestiti, niente più. L'abito è perfettamente equipaggiato. Dentro di esso, lei potrebbe vivere sulla Luna».
«Ciò che non capisco», si lamentò McAllister, «è perché devo indossarlo. Sono arrivato qui senza difficoltà, pur essendone privo...»
Si accigliò. Aveva pronunciato quelle parole istintivamente, ma all'improvviso un pensiero gli si affacciò alla mente: «Un momento! Che cosa accadrà all'energia di cui sono carico, quando sarò imbottigliato in questo involucro isolante?»
Capì subito, dall'irrigidirsi delle espressioni di coloro che lo circondavano, che aveva toccato un tasto proibito.
«Così, si tratta di questo!» sbottò. «L'isolamento serve a impedirmi di perdere anche una piccola frazione di questa energia. Soltanto così potrò costituire il "peso". Non ho alcun dubbio che ci sia un rapporto fra questa tuta e quella macchina. Be', non è ancora troppo tardi. Io...»
Con un guizzo disperato si gettò di lato, cercando di non farsi ghermire dalle mani dei quattro uomini che gli erano balzati addosso. Ma non vi fu scampo. L'agguantarono, e la loro stretta era troppo forte perché lui potesse sperare di spezzarla.
Le dita di Peter Cadron si strinsero sulla chiusura-lampo e la chiusero di colpo, poi disse: «Ci spiace, ma quando siamo andati in quella stanza sul retro, anche noi abbiamo indossato degli abiti isolanti. Per questo non ci ha danneggiato quando l'abbiamo afferrato.
«Le ripeto, siamo terribilmente spiacenti, ma lei ricordi questo: non c'è nessuna certezza che lei venga sacrificato. Il fatto che non ci sia nessun cratere di grandi dimensioni sulla nostra Terra dimostra che lei non è esploso nel passato, e quindi ha risolto il problema in qualche altro modo. E adesso... qualcuno apra quella porta, presto!»
McAllister fu inesorabilmente trascinato in avanti. Poi...
«Aspettate!»
Era stata la ragazza. Il suo volto grigio aveva acquistato una sfumatura livida. I suoi occhi scintillavano come cupi gioielli, e fra le dita stringeva quella minuscola, scintillante pistola che all'inizio aveva puntato contro McAllister.
Gli uomini che stavano spingendo McAllister si arrestarono, come se fossero stati colpiti. Lui neppure se ne accorse; c'era soltanto la ragazza, per lui, il movimento delle sue labbra, e l'avvampare della sua voce: «Questo è uno spaventevole oltraggio. Siamo forse codardi a tal punto? È forse possibile che l'anelito di libertà possa sopravvivere soltanto grazie a un vile assassinio, compiuto in completo dispregio dei diritti dell'individuo? Io dico di no! Il signor McAllister deve avere la protezione del trattamento ipnotico, anche se dovessimo morire nei minuti che saremo costretti a perdere!»
«Lystra!» Era stato suo padre; e McAllister si rese conto, dalla rapidità dei suoi movimenti, di quale mente brillante vi fosse in lui, e di quanto prontamente il vecchio avesse afferrato ogni aspetto della situazione.